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Quei cinque
di Via Po 21

Quei cinque <br> di Via Po 21

di Giuseppe Bianchi

Raffaele Morese ha dato recentemente alla stampa un agile volume “Quei cinque di Via Po 21” (Ed. Lavoro) in cui ricostruisce il pensiero e l’azione dei primi cinque Segretari Generali della Cisl che hanno guidato questo Sindacato nelle turbolenze del processo di industrializzazione che si è andato consolidando nel Paese. Quarant’anni di storia della Cisl, dal suo fondatore Giulio Pastore, ai suoi primi successori: Bruno Storti, Luigi Macario, Pierre Carniti e Franco Marini. Va ricordato che lo stesso Morese è parte di questa storia, avendo ricoperto la responsabilità di Segretario Generale della FIM dal 1983 al 1989, sotto la leadership di Franco Marini, e di Segretario Aggiunto dal 1991 al 1998, quindi immediatamente dopo la fine del periodo raccontato nel libro.

Il tratto unificante delle comuni esperienze dei cinque Segretari Generali è rappresentato da una idealità che proponeva una nuova cittadinanza sindacale, la Cisl, liberata dai condizionamenti ideologici di una storia sindacale, in cui la cronica debolezza del lavoro aveva favorito il ruolo di guida da parte dei partiti della sinistra storica. Un progetto di promozione del lavoro inserito nei processi evolutivi di un capitalismo democratico e sorretto dalla forza associativa dei lavoratori.
Un progetto, forse precoce, in un paese caratterizzato da una elevata conflittualità sociale restia a ritrovarsi in obiettivi condivisi. Infatti, il percorso dei primi cinque Segretari della Cisl non fu, di certo, agevole. La proposta innovativa della Cisl di dare spazio alla contrattazione aziendale per rivalutare il ruolo partecipativo dei lavoratori trovò ostacoli non solo da parte delle imprese, contrarie ad una rappresentanza interna dei lavoratori che interferisse con la gestione produttiva, ma anche da parte della Cgil, perché rompeva l’unità della classe. Non poco problematici furono infatti i rapporti intersindacali nella fase più socialmente contrastata del nostro sviluppo industriale, gli anni ’70 del secolo scorso. Se nella fase più acuta del conflitto sociale si diede vita ad istituzioni di unità sindacale, soprattutto per contenere l’esuberanza rivendicativa di minoranze attive, la successiva fase di contenimento dell’inflazione, che erodeva la competitività del sistema produttivo e la capacità di acquisto dei salari, segnò il punto più alto della divergenza sindacale. La manifestazione più eclatante fu la divisione che si realizzò in occasione del referendum del 1985 sull’accordo che metteva in discussione l’istituto della scala mobile che con il punto unico aveva appiattito la struttura salariale, penalizzando i lavori più qualificati. Ancora una volta da una parte la Cgil e dall’altra la Cisl, al cui vertice c’era Pierre Carniti, il dirigente carismatico che più si era speso nel passato a favore dell’unità sindacale.

Fu quella un’ulteriore conferma delle difficoltà del sindacalismo italiano nel ritrovarsi in una strategia riformistica condivisa,  in un periodo che, a partire dagli anni ’80, segnò una “normalizzazione” del conflitto sociale e l’ampliamento del ruolo tutorio della legge a scapito dell’autoregolazione sociale. Un effetto collegato è stato il trascinamento di un pluralismo sindacale competitivo che ha indebolito la capacità di autotutela del mondo del lavoro nella successiva evoluzione terziaria dell’economia, per lo più a basso valore aggiunto, che ha disarticolato il sistema produttivo e il mercato del lavoro.  Una lunga fase, non ancora interrotta, di declino del lavoro, sia sul piano del salario “reale”, eroso dall’inflazione, che del salario “sociale”, in presenza di un impoverimento del welfare di Stato che ha trasmesso sul reddito da lavoro oneri impropri, dovuti alla carenza di prestazioni sociali (in primis la tutela della salute).
Secondo una mia interpretazione (non so quanto condivisa dall’autore), la sua ricostruzione delle vicende sindacali, nella fase più espansiva della nostra crescita economica e sociale, già anticipa le difficoltà del nostro pluralismo sindacale di offrire, oggi, una capacità di tutela del lavoro nell’evoluzione del nuovo capitalismo della sostenibilità. La nuova combinazione in atto di innovazioni tecnologiche nel campo digitale e dell’intelligenza artificiale, in un contesto di sviluppo gravato dai costi del risanamento ambientale, richiede la costruzione di una competitività più evoluta che apre spazi, nello stesso tempo, a nuove opportunità al lavoro. Se queste opportunità non vengono intermediate da nuove forme di solidarietà collettiva, il rischio è che la molteplicità disordinata degli interessi organizzati in gruppi di pressione renda più costosa e problematica la gestione dei conflitti sociali. Un esempio è quanto sta avvenendo nel settore agricolo. Rappresentanze occasionali di tale mondo stanno attivando modalità conflittuali aggressive per accreditare le loro rivendicazioni che, per quanto possano essere legittimi i loro obiettivi, rischiano di suffragare l’opinione che la piazza sia il luogo per risolvere, pur legittime, controversie. La dignità del lavoro, qualunque sia il settore di riferimento, è un tratto costitutivo della civiltà democratica, ma la sua realizzazione è affidata ad un gioco democratico governato dalla stabilità delle istituzioni rappresentative, capaci di equilibrare gli interessi di parte rappresentati con quelli più generali della collettività. I Sindacati sono parte di questa costruzione istituzionale.
È tempo che questi facciano pace con la loro storia di divisioni e tornino a produrre cultura e quell’integrazione di valori e di interessi in grado di creare nuove solidarietà collettive. È diffuso il pessimismo della ragione, ma l’alternativa è un conflitto sociale anarchico, affidato ai rapporti di forza espressi da interessi particolari, poco compatibile con l’aspirazione a un rinnovamento del Paese. 

 

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