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La 'via selvatica'
secondo Favole

Libri
Ogni settimana uno scaffale diverso, ogni settimana sarà come entrare in una libreria virtuale per sfogliare un volume di cui si è sentito parlare o che incuriosisce. Lo "Speciale libri" illustra le novità delle principali case editrici nazionali e degli autori più amati, senza perdere di vista scrittori emergenti e realtà indipendenti. I generi spaziano dai saggi ai romanzi, dalle inchieste giornalistiche, alla storia e alle biografie.

La 'via selvatica' <br> secondo Favole

L'ANTROPOLOGO ADRIANO FAVOLE INDICA "LA VIA SELVATICA"

La ‘via selvatica’ è quella che ci fa scoprire che non siamo solo cultura, che l’essere umano vive delle relazioni che intrattiene con tutti i suoi ‘simili’, dalle api ai vulcani, dalle foreste alle barriere coralline, dalle piante ai funghi che abitano con noi la Terra.
Adriano Favole ce la racconta portandoci dentro la foresta di Tchamba, sull’isola di Futuna, tra i vulcani di La Réunion, sulle ramificazioni liquide dell’Amazzonia, nella baia di Lékiny e tra le radure delle Alpi occidentali. "La via selvatica. Storie di umani e non umani" è pubblicato da Laterza. Un giorno James Clifford, uno dei più noti antropologi contemporanei, fu invitato dal suo amico Jean-Marie Tjibaou, un Kanak della Nuova Caledonia, a visitare la sua tribù natale. A un certo punto, dalla sommità della collina, Clifford vide alcune abitazioni in mezzo a una radura nella foresta. "Dov’è casa tua?", gli chiese. Tjibaou lo guardò, aprì il palmo della mano muovendolo a 360 gradi, invitandolo a osservare l’insieme del paesaggio e gli disse in francese: "C’est ça la maison!" (È questa la casa!). ‘Casa’ è fuori di noi, è l’insieme delle relazioni che abbiamo con gli umani e con gli altri esseri che vivono con noi qui sulla Terra. Dobbiamo la vita a forze ed esseri ‘selvatici’, ‘incolti’, che vivono cioè fuori dai confini delle culture intese come spazi simbolici. L’incolto è la nozione di cui abbiamo bisogno per uscire da quella contrapposizione tra natura e cultura che continua a colonizzare le nostre menti. L’incolto non è il caos: è la vita che si organizza, che germoglia, che si stratifica come i coralli, che si incontra e si scontra, la vita che rinasce continuamente nei dintorni di quella organizzazione che chiamiamo ‘cultura’. L’incolto è un aspetto del mondo che viviamo e della condizione umana. Non è un caso che alcune società lo abbiano ‘sacralizzato’ e spesso posto al centro di rituali, proteggendolo dall’invasività e dall’avidità umana con norme e divieti. È in gran parte nell’incolto o nel semi-colto delle foreste e degli oceani che si produce l’ossigeno che respiriamo; è nei greti dei torrenti e nelle forre sotterranee che si accumula l’acqua che beviamo. Gli dobbiamo l’esistenza e, anche se non sempre lo riconosciamo, l’incolto ha una sua vita, è un assemblaggio di progettualità che prescindono da noi; l’incolto si cura di noi. Noi siamo incolto.

L'AUTORE. Adriano Favole è professore ordinario di Antropologia culturale all’Università di Torino e Visiting Professor all’Università della Nuova Caledonia. Ha insegnato all’Università di La Réunion (Oceano Indiano) e all’Università della Polinesia francese. Ha fondato e dirige il Laboratorio “Arcipelago Europa” presso il Dipartimento di Culture, Politica e Società dell’Università di Torino. Ha pubblicato numerosi testi scientifici e si occupa di comunicazione dell’antropologia e delle scienze sociali. Collabora con “la Lettura” del “Corriere della Sera” ed è consulente del Festival Dialoghi di Pistoia. Per Laterza è autore di Resti di umanità. Vita sociale del corpo dopo la morte (2003), Oceania. Isole di creatività culturale (2010) e La bussola dell’antropologo. Orientarsi in un mare di culture (2015).








"NONLUOGHI" DI MARC AUGE', NUOVA RISTAMPA


I nonluoghi sono quegli spazi dell'anonimato ogni giorno più numerosi e frequentati da individui simili ma soli. Nonluoghi sono sia le infrastrutture per il trasporto veloce (autostrade, stazioni, aeroporti) sia i mezzi stessi di trasporto (automobili, treni, aerei). Sono nonluoghi i supermercati, le grandi catene alberghiere con le loro camere intercambiabili, ma anche i campi profughi dove sono parcheggiati a tempo indeterminato i rifugiati da guerre e miserie. Il nonluogo è il contrario di una dimora, di una residenza, di un luogo nel senso comune del termine. E al suo anonimato, paradossalmente, si accede solo fornendo una prova della propria identità: passaporto, carta di credito... Nel proporci una antropologia della surmodernità, Augé ci introduce anche a una etnologia della solitudine. Elèuthera ristampa un grande classico dell'antropologia culturale, "Nonluoghi" di Marc Augé,  con le traduzioni di Dominique Rolland e Carlo Milani.  

L'AUTORE. Antopologo ed etnologo francese, Augé ha rivestito il ruolo di Direttore di ricerca all'ORSTOM (oggi IRD) fino al 1970, quindi "directeur d'études" presso l'EHESS di Parigi, ha compiuto numerose missioni in Africa, in particolare in Costa d'Avorio e in Togo. Dalla metà degli anni Ottanta ha diversificato i suoi campi d'indagine. Ha quindi compiuto diversi viaggi in America Latina. Partendo da un osservatorio più vicino, in Francia e in particolare Parigi, si dedica ormai da molti anni alla costruzione di una "antropologia dei mondi contemporanei". La fama in ambito scientifico arriva con le sue ricerche sul campo in Costa d’Avorio e nel Togo concernenti la malattia, la morte e i sistemi religiosi (Le Rivage alladian, 1969; Théorie des pouvoirs et idéologie, 1975; Pouvoirs de vie, pouvoirs de mort, 1977; trad. it. 2003). Ma la popolarità più ampia è arrivata con l'analisi negli spazi moderni (autogrill, centri commerciali...) basati sull'assenza di storia e identità. Nasce così la sua celeberrima teoria dei 'nonluoghi' espressa in Un ethnologue dans le métro (1985; Un etnologo nel metrò, Elèuthera 1992) e Non-lieux: introduction a une anthropologie de la surmodernité (1992; Nonluoghi. Introduzione ad una antropologia della surmodernità, Elèuthera 1993).
Tra le sue altre opere ricordiamo Le temps en ruines (2003; trad. it. Rovine e macerie. Il senso del tempo, 2004 Bollati Boringhieri), La mere d’Arthur (2005; La madre di Arthur, Bollati Boringhieri 2005), L'anthropologie (2004, L'antropologia del mondo contemporaneo, Elèuthera 2006).
Nel saggio Le métro revisité (2008; Il metro rivisitato, Raffaello Cortina 2009) torna a interrogarsi su questo luogo per eccellenza dello spazio pubblico dove circolano opinioni, povertà, musica e sogni. Ricordiamo ancora l'autobiografia intellettuale La vie en double (2010,  Straniero a me stesso. Tutte le mie vite di etnologo, Bollati Boringhieri 2011) e un altro saggio che narra alcuni aspetti molto personali dell'autore accanto alla riflessione generale sul tema: Le temps sans âge (2014; Il tempo senza età. La vecchiaia non esiste, Raffaello Cortina editore 2014). Tra le altre sue pubblicazioni ricordiamo: I giardini del Lussemburgo (2015), Il dio oggetto (2016) La guerra dei sogni. Esercizi di etno-fiction (2016), il saggio Momenti di felicità (2017) e Cuori allo schermo (Piemme, 2018). Marc Augé si è spento a Poitiers il 24 luglio 2023. Così è stato ricordato su la Repubblica: «Qualunque cosa si pensi ..., Augé ci ha fotografati. È stato il Brian Eno dell'antropologia, lo studioso raffinato e pop che ha disegnato l'abitare contemporaneo meglio di chiunque altro".   


VIRTUS ZALLOT, UN MEDIOEVO DI ABBRACCI

Abbracci di madri, amanti, bambini, amici, peccatori e santi; a persone, animali, cose, figure dipinte o evocate in sogno; intimi e sociali, umani e divini, metaforici e reali. Gesti che accolgono, congedano, proteggono, consolano, aggrediscono, sostengono il corpo e l’anima. Il volume di Virtus Zallot, "Un Medioevo di abbracci. Non solo d'amore, non solo umani" (Il Mulino) li indaga nell’arte e nella letteratura del Medioevo, dove sono eloquenti ed eclatanti poiché in tale epoca, e ancor più nel suo immaginario, il linguaggio corporeo integrava fortemente, e spesso sostituiva, le parole. Pur messi in scena entro contesti apparentemente lontani, gli abbracci medievali sono una sorta di specchio entro cui osservarci, scoprendo che ci appartengono e parlano di noi. Virtus Zallot è docente di Storia dell’arte medievale all’Accademia di Belle Arti SantaGiulia di Brescia.Studiosa di iconografia sacra, collabora con istituzioni culturali ed enti pubblici a progetti di ricerca e di valorizzazione del patrimonio artistico. Per il Mulino ha pubblicato «Con i piedi nel Medioevo. Gesti e calzature nell’arte e nell’immaginario» (2018) e «Sulle teste nel Medioevo. Storie e immagini di capelli» (2021). Scrive per «Il Giornale dell’Arte».


GIORGIO FONTANA, "KAFKA, UN MONDO DI VERITA'   

"Ci sono istanti in cui le sue pagine sembrano realmente guardarci, leggerci nel profondo e non viceversa: le immagini ci dominano, ne percepiamo l’urgenza, la radicale necessità; intuiamo che la posta in gioco è altissima»; «di colpo abbiamo l’impressione che quanto si legge non corrisponda davvero a ciò che accade fra le righe": così, per Giorgio Fontana, l’enigma Kafka è implacabile. Al tempo stesso, però, è importante uscire dalla banalità del mito, dalla spettacolarizzazione racchiusa nell’abuso di un aggettivo, "kafkiano": "Kafka non era un kafkiano; occorre prenderlo in primo luogo da scrittore, e in quanto tale non degradarlo a un 'ufficio informazioni sulla situazione dell’uomo'". Insomma, senza cadere nell’errore che il sacerdote del Processo imputa a Josef K.: non rispettare lo scritto e cambiare la storia. Per entrare dentro tale enigma, l’estesa e ammaliante riflessione di Fontana, nel saggio "Kafka. Un mondo di verità" (Sellerio),  inizia affrontando gli elementi tecnici: l’amalgama di naturalismo e fantastico, "i modi in cui Kafka si rapporta alla pagina: la scelta di un nome, l’entrata in scena di un personaggio, il posizionamento di una svolta narrativa". E ancora l’alterazione del tempo e dello spazio, il nitore della lingua, l’uso di un punto di vista limitato a fronte del classico narratore onnisciente – per contagiare il lettore con l’incertezza morale del protagonista – o gli straordinari episodi comici di cui sono punteggiati romanzi e racconti. L’autore rivela così la ricchezza dell’opera kafkiana senza dimenticare l’uomo che vi sta dietro: attingendo dai suoi scritti privati e da testi letterari inediti in vita, ma trattando il materiale con la consapevolezza di esplorare la sfera privata di un defunto. Tutto converge verso una domanda posta fin da subito, una questione semplice solo in apparenza: "Ancora Kafka. Perché?". Perché le sue parole ci inquietano ancora, e perché recano al contempo un senso di dignità e fermezza? Perché suonano così vicine al timbro che deve avere la verità? Questo libro scrupoloso e ricco di fonti non è un asettico testo di analisi: è l’urgenza di uno scrittore di dissezionare la propria esperienza di lettura e di senso; e di fare di tale esperienza, essendo l’autore un narratore egli stesso, qualcosa di concreto e coinvolgente per chiunque abbia letto Kafka, lo conosca o lo voglia conoscere. Un tentativo riuscito di saldare il debito culturale che la nostra epoca ha contratto con il grande praghese e il debito personale che lega Fontana a Kafka da sempre: camminando sulla linea che unisce il rigore filologico e lo slancio passionale, la critica letteraria e l’amore.


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