La bioetica, la privacy, l’accesso all’informazione e la responsabilità della scienza sono alcuni dei temi sui quali indaga il giurista Stefano Rodotà, che nel 2013 taglierà il traguardo degli 80 anni avendo mantenuta intatta la sua passione civile. Calabrese, docente universitario, più volte parlamentare della sinistra, dal 1997 al 2005 presidente dell’Autorità garante per la protezione dei dati personali, coautore della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, Rodotà è stato tra i primi a introdurre in Italia la questione dei beni comuni, questione che oggi appassiona l’opinione pubblica più informata e soprattutto i giovani, come hanno dimostrato i referendum del 2011. Rodotà lo ha fatto non solo scrivendo saggi e articoli ma anche accettando di presiedere, nel 2007, la Commissione incaricata dal Ministero della Giustizia di modificare le norme del codice civile in materia di beni pubblici. (E qui dobbiamo notare per inciso come questo intreccio tra riflessioni teoriche e responsabilità pubbliche sia una costante nella biografia di Rodotà, un signore di cui si può dire che sa quello che fa, e viceversa). Dunque, la commissione doveva capire quali beni rendere indisponibili per il mercato e quali valorizzare per tentare di affrontare il problema dell’enorme debito che affligge l’economia italiana. Distinguendo tra beni comuni, beni pubblici e beni privati il gruppo di lavoro presieduto da Rodotà stabilì che i primi dovevano essere tutelati e salvaguardati dall’ordinamento giuridico, anche a beneficio delle generazioni future. In Italia non era mai accaduto in precedenza. Il riferimento alle generazioni future non è peraltro una invenzione dei tempi nostri. Nella Costituzione francese del 1793 si dice esplicitamente che "una generazione non ha il potere di assoggettare alle proprie leggi le generazioni future". E gli indiani d'America erano consapevoli di non aver ricevuto la terra in eredità dai loro padri, ma in prestito dai nipoti. In questi anni Rodotà è tornato spesso sul tema dei beni comuni, nel frattempo divenuto uno slogan prima dell’antipolitica poi della nuova politica e quindi dilatato fino a rischiare di diventare incomprensibile. Oggi si parla di beni comuni per l’acqua e per la conoscenza, per la Rai e per i teatri, per l’ impresa e per Internet. Un quotidiano si è spinto a sostenere che anche “i poeti sono un bene comune”. Ma se tutto diventa bene comune, niente può essere davvero protetto. Quindi è toccato di nuovo a Rodotà scendere in campo, questa volta per arginare il grande rischio della confusione e della demagogia. “Se la categoria dei beni comuni rimane nebulosa – ha scritto - se in essa si include tutto e il contrario di tutto, se ad essa viene affidata una sorta di palingenesi sociale, allora può accadere che quella che Franco Cassano aveva chiamato la ‘ragionevole follia dei beni comuni’ diventi una follia e basta”. Rodotà fa l’esempio di Internet, sicuramente un bene pubblico globale. Ma che proprio perché globale, popolato da miliardi di persone, non è gestibile da una comunità di utenti, come vorrebbe la retorica del bene comune. Meglio sarebbe occuparsi delle condizioni d’accesso e dei diritti dei cittadini che frequentano il web (circa 25 milioni in Italia). Rodotà lo ha fatto proponendo di integrare la Costituzione con un articolo 21bis che dovrebbe recitare così: "Tutti hanno eguale diritto di accedere alla Rete Internet, in condizione di parità, con modalità tecnologicamente adeguate e che rimuovano ogni ostacolo di ordine economico e sociale". Tre righe per dire che Internet è un diritto costituzionale, che il web si ispira a un principio di neutralità, che la conoscenza in Rete è un bene comune, al quale deve essere garantito l’accesso superando il divario digitale. Un vasto programma tradotto in una sintetica norma, che è poi il mestiere del professor Rodotà. Il quale intende continuare a occuparsi di quelli che chiama i nuovi diritti, come quelli degli immigrati, delle coppie di fatto, di quanti vogliono liberamente decidere sulla fine della loro vita. O i diritti del lavoro, un po’ trascurati da un comune sentire molto attento invece ai diritti dei mercati.
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