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TOSCANI: LA MIA MALATTIA
INCURABILE, VOGLIO MORIRE

TOSCANI: LA MIA MALATTIA <BR> INCURABILE, VOGLIO MORIRE

"Quanto tempo mi resta? Non si sa. Certo che vivere così non mi interessa. Bisogna che chiami il mio amico Cappato, lo conosco da quando era un ragazzo. Ogni tanto mi vien voglia. Gliel’ho detto già una volta e lui mi ha chiesto se sono scemo”, “non voglio un funerale. Mi portino a bruciare e via. Sono sempre stato laico, neppure i miei figli ho battezzato. Vivere vuol dire anche morire, eppure nessuno parla della morte. Si vive come imbrogliandosi, perdendo tempo”, “mi domando se non sarebbe stato meglio un problema di demenza, ma con un corpo sano. Sarebbe stato peggio per gli altri”. Lo afferma Oliviero Toscani, in una intervista al Corriere della Sera nella quale parla della sua malattia incurabile, l'amiloidosi. “Sto vivendo un’altra vita – afferma l’82ebnne fotografo -. Vengo da una generazione, quella di Bob Dylan, dove eravamo forever young, il pensiero di invecchiare proprio non c’era. Fino al giorno prima di essere così, lavoravo come se avessi 30 anni. Poi una mattina mi sono svegliato e all’improvviso ne avevo 80”, “un po’ prima di un anno fa. Alla fine di giugno mi sono svegliato con le gambe gonfie, ero in Val d’Orcia. Ho cominciato a fare fatica a camminare. All’ospedale mi hanno diagnosticato un problema al cuore. A fine agosto sono andato a Pisa al Santa Chiara e da lì al Cisanello, dove avevamo deciso la data dell’operazione al cuore, intorno al 20 settembre. E’ venuto a trovarmi il mio amico Francesco Merlo con suo cugino, cardiologo al Giovanni XXIII di Bergamo: un medico incredibile. Mi ha fatto andare su da loro per altri esami e hanno subito chiamato il dottor Michele Emdin a Pisa, specializzato nella malattia che pensavano avessi: l’amiloidosi. In pratica le proteine si depositano su certi punti vitali e bloccano il corpo. E si muore. Non c’è cura”. Ma si sta curando… “È una cura sperimentale, faccio da cavia. A ottobre ho anche preso una polmonite virale e il Covid, mi hanno tirato per i capelli. Penso di essere stato anche morto, per qualche minuto: ricordo una cosa astratta di colori un po’ psichedelici. Quando sto male e ho la febbre riesco a immaginare cose fantastiche... In un anno ho perso 40 chili. Neppure il vino riesco più a bere: il sapore è alterato dai medicinali”. Ha paura di morire? “No, non ho paura. Basta che non faccia male. E poi ho vissuto troppo e troppo bene, sono viziatissimo. Non ho mai avuto un padrone, uno stipendio, sono sempre stato libero”, “è John Lennon che disse che la vita è quello che ti succede mentre fai altro? Quando ho detto al mio amico Luciano Benetton che avevo una malattia rara lui mi ha risposto: “Oliviero, tu sei nato con una malattia rara!” Ci sentiamo due volte alla settimana, ma non voglio che venga. È impegnativa per me una roba così. Quando lavoravo in Benetton i veri nemici erano i manager. All’infuori di Luciano, tutti gli altri mi odiavano. Ora mi ha detto: ‘Avevi ragione tu su di loro’”. Si riferisce al Ponte Morandi? “Quella è stata una cosa schifosa”. A chi si sente più grato? “Ho imparato da tanta gente speciale. Sicuramente da Don Milani, da Muhammad Ali e da Bob Dylan. A volte una frase, anche di una canzone, è più importante di tanti libri. Oggi mi ha scritto uno studente inglese e mi ha chiesto se nella fotografia la parte artistica è stata alterata dal mio impegno etico. Ma la fotografia è impegno etico! A me non frega niente dell’estetica fotografica. La Guernica di Picasso ha un’incredibile estetica, ma ha soprattutto una forza sociale di memoria e impegno”. E interrogato di quale dei suoi lavori sia più orgoglioso risponde: “Non sono orgoglioso di natura, perché tutto potrebbe essere fatto meglio. Forse tengo molto al lavoro a Sant’Anna di Stazzema”, “mi chiamò il sindaco e disse: ‘Tra poco saranno i 60 anni dall’eccidio e non ci sono immagini’’. E io: ‘Dopo 60 anni trovarne è dura’. Lui: “Se lei è davvero così bravo non dovrebbero esserci problemi”. E riattaccò, ’sto stronzo. Però mi intrigò. Andai nell’unico bar e l’oste mi suggerì di parlare con il signore che stava entrando. Era Enrico Pieri: nell’eccidio aveva perso tutta la famiglia, era un bambino. Lì ho capito che si poteva fare qualcosa. È l’unico servizio che ho fatto tutto in bianco e nero, a spese mie. È la fotografia applicata nel modo giusto ed è l’unico documento di Sant’Anna”. Ha ancora voglia di fotografare? “No, mi sono liberato di tutto. È questa la bellezza”. (28 ago - red)

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