di Paolo Pagliaro
Venerdi si assegna il Nobel per la pace e chissà se il prescelto sarà all’altezza di Narges Mohammadi, ingegnere e attivista iraniana per i diritti umani, che ricevette il premio l’anno scorso. Lo ricevette per modo di dire, perché si trovava e si trova nella famigerata prigione di Evin, a Teheran dove paga il suo impegno con una condanna a 12 anni e 11 mesi di carcere, e 154 frustate. Grazie all’aiuto delle compagne con cui condivide la cella, Mohammadi ha potuto rispondere alle domande che le ha inviato la giornalista Greta Previtera per un’intervista pubblicata oggi dal Corriere della Sera. Alla vigilia di un possibile attacco isreliano all’Iran, il premio Nobel dice di non credere che la guerra possa essere un modo veloce per far cadere il regime degli ayatollah. Pensa invece che la rivoluzione debba passare dal popolo e che la cosa potrà accadere perché la Repubblica islamica non rappresenta la società iraniana di oggi a nessun livello, nemmeno quello religioso.
La resistenza delle donne iraniane si aiuta anche leggendo ciò che ci mandano a dire. Va segnalata la prima traduzione italiana delle poesie di Tahereh, pasionaria e mistica del XIX secolo, sostenitrice del babismo, un movimento che predica la riforma spirituale e sociale dell’islam, condanna l’alleanza secolare fra la spada e il turbante, chiede che siano rispettati i diritti delle donne, dei bambini e dei non musulmani. Tahereh fu imprigionata e trucidata a Teheran, le sue poesie sono raccolte in un volumetto pubblicato da Jouvence con il titolo “Il tesoro nascosto”.
La comunità Baha’i pubblica invece “Poesie dalla prigione” di Mahvash Sabet, un’altra intellettuale iraniana attualmente incarcerata, ma libera.
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