“Sino a vent'anni fa di foibe non si parlava, né a scuola, né nel dibattito pubblico. Nel 1998, quando Luciano Violante e Gianfranco Fini ne discussero insieme all'Università di Trieste, in tanti storsero il naso: a sinistra, perché si sdoganava l'argomento smentendo l'equivalenza infoibati=fascisti, a destra perché si perdeva il monopolio della memoria. Capire perché le foibe (6/7mila morti nella primavera 1945) e i profughi istriani, fiumani e dalmati (circa 300mila persone fuggite da territori passati alla Jugoslavia) sono diventati argomento ‘indicibile’ significa ripercorre i meandri attraverso cui la nostra nazione ha costruito la narrazione del proprio passato”. Lo scrive lo storico Gianni Oliva in un intervento su La Stampa. “La storiografia più avveduta ha fatto chiarezza da tempo, riconducendo il fenomeno ad una duplice realtà: da un lato, gli antagonismi nazionali, alimentati dall'italianizzazione forzata imposta dal fascismo ed esasperati dalle violenze dell'occupazione militare italo-tedesca del 1941-43; dall'altra, la politica espansionistica del nazionalcomunismo di Tito e il progetto di annettere alla nuova Jugoslavia comunista la Dalmazia, l'Istria, Trieste. Nel maggio-giugno 1945, quando le forze titoiste arrivano per prime sulla frontiera adriatica, si scatena una repressione brutale nella quale si mescolano risentimenti nazionali e volontà epurativa politica. Perché al tavolo delle trattative di pace venga riconosciuta la sovranità di Belgrado su tutto il territorio giuliano, bisogna infatti eliminare le persone che possono difenderne l'italianità, sopprimere le personalità di orientamento moderato o anticomunista. Di qui un clima di violenza e di sospetto, con migliaia di cittadini italiani uccisi senza processo ed eliminati occultandone i corpi nelle foibe. E da qui il fenomeno successivo: l'esodo di circa 300mila italiani dalle regioni che il trattato di pace del 10 febbraio 1947 assegna al controllo jugoslavo, cittadini che lasciano le loro terre d'origine e raggiungono la penisola, sparpagliati in 109 campi improvvisati di raccolta. Su questa pagina di storia è sceso presto un silenzio che l'ha confinata in una memoria locale. In primo luogo, si è trattato di un ‘silenzio internazionale’. Nel 1948, quando Stalin espelle Tito dal Cominform, la Jugoslavia diventa per l'Occidente un interlocutore e gli interlocutori non si mettono in difficoltà con domande imbarazzanti: da quel momento, non c'è più interesse a far chiarezza né sugli infoibati, né sull'esodo italiano. In secondo luogo, un ‘silenzio di partito’. Per il Pci di Togliatti parlare di foibe significherebbe mettere in evidenza le contraddizioni tra l'essere un partito nazionale e il mantenere in politica estera la visione internazionalista e la subalternità alle indicazioni di Mosca, che lo hanno portato ad accettare l'espansionismo jugoslavo. Ma, più determinante di tutti, è sceso un ‘silenzio di Stato’. L'Italia fascista ha scatenato la seconda guerra mondiale insieme alla Germania nazista e l'ha persa, ma la ‘nuova’ Italia del 1945 si sforza di autorappresentarsi come Paese vincitore e utilizza l'esperienza della Resistenza partigiana (tanto determinante per il futuro del Pese quanto minoritaria) come alibi per autoassolversi e cancellare in un colpo il periodo 1922-1943. Questa rielaborazione rassicurante del passato, che scarica le colpe della dittatura e della guerra esclusivamente su Mussolini e sul Re, giova tanto alla sinistra comunista (che nella Resistenza trova la propria legittimazione), quanto alle forze moderate, che puntano alla normalizzazione dello Stato e alla continuità della classe dirigente. Aprire i conti con il passato comporterebbe rivisitazioni dagli esiti imprevedibili e l'individuazione delle connivenze di troppi, pregiudicando gli equilibri del Paese: meglio fingersi vincitori e garantire a tutti una ritrovata verginità politica e morale”. (10 feb - red)
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