La morte improvvisa di papa Francesco ha sottolineato la fase di incertezze in cui continuiamo a vivere. Non che il pontefice potesse mettere fine a questa situazione, ma la sua voce era un monito che aveva pur qualche peso, sostenuta da un lavoro discreto della diplomazia vaticana. L’avere quella “sede vacante” con le inevitabili incertezze sull’esito di un conclave che deve unificare un collegio cardinalizio di nuovo tipo è un elemento che certo non concorre a favorire una qualche stabilizzazione del quadro internazionale.
Il 70% dei cardinali è stato nominato da Bergoglio, ma si tratta anche di personalità che risiedono sparse per il mondo con limitate occasioni di contatto, il che non contribuisce alla maturazione di un comune sentire orientato sui bisogni della chiesa universale. Nelle nomine sono state in parte privilegiate figure di “pastori” (Francesco voleva persone che si portassero addosso l’odore delle loro pecore) che da un lato non è detto siano pienamente formate alla visione globale della politica vaticana e che dall’altro per inesperienza potrebbero facilmente essere catturate da quei cardinali più avvezzi alle manovre politiche. Si sa bene che ci sono lotte di gruppi, se non vogliamo chiamarli fazioni, i quali da tempo ragionano sulla successione a Bergoglio: può darsi che l’accelerarsi degli eventi le abbia spiazzate, ma non più di tanto. Chiunque abbia qualche contatto anche marginale e superficiale con la Roma vaticana sa quanto tutto questo sia oggetto di voci e speculazioni.
Che tutto ciò abbia qualche riflesso anche sull’andamento della politica internazionale è scontato: quanto meno perché per un certo periodo non ci sarà più una voce autorevole, per quanto assai poco recepita, a denunciare la pessima piega degli eventi internazionali. L’ipocrisia di molti tributi di omaggio al pontefice scomparso da parte di personaggi che erano oggetto delle sue severe critiche (per metterla in forma leggera) è piuttosto fastidiosa, ma testimonia pur sempre l’esistenza di un qualche rispetto per chi invocava ragionevolezza e pace trovando ascolto fra la gente.
Ora le questioni aperte nella politica internazionale non sono né poche, né secondarie. Iniziamo dalla guerra commerciale aperta da Trump con la politica dei dazi. Sembra affievolita sul fronte USA-Europa, anche se siamo solo ad una incerta e anche ambigua tregua che si dovrà vedere come evolve, ma la grande questione è lo scontro con la Cina. Il presidente americano sottovaluta la capacità di resistenza e di risposta da parte di Pechino, che è ben in grado di mettere in subbuglio gli equilibri complessivi. Pensiamo che, se si fa a cornate fra un sistema quanto meno post-democratico come gli USA ed uno autocratico come la Cina, il secondo è più in grado di costringere il suo popolo a sopportare una fase di difficoltà economiche di quanto non sia il primo. E intanto la fibrillazione che quel braccio di ferro trasmetterà ai mercati può creare una crisi economica mondiale di notevoli dimensioni.
La questione ucraina è connessa con questo più di quanto non si pensi. La Russia non ne vuole sapere di una composizione del conflitto che non contempli il raggiungimento pressoché totale dei suoi obiettivi: conquista e annessione di tutte le provincie che stimano russofone e annientamento della soggettività internazionale dell’Ucraina. Questo è ovviamente inaccettabile persino per Trump, che ci farebbe la figura di quello che deve dare carta bianca alle prevaricazioni di Putin: l’obiettivo di accontentarlo perché non faccia asse con Pechino non è sufficiente per fargli ingoiare il rospo. Ponendo la questione a questo livello di ingordigia, lo zar di Mosca rende impossibile per Zelensky accettare quello stato di fatto che si è determinato sul campo (perdita della Crimea e dei territori già sotto occupazione russa) e da cui è difficile prescindere a meno di non immaginare una guerra prolungata per anni, la quale però implicherebbe un esborso di sostegno americano ed europeo di grande portata.
Messa così la situazione, si riscontra un’impasse da cui non si vede per ora via d’uscita e ciò è molto pericoloso in presenza di una leadership politica umorale e volatile come quella della Casa Bianca.
In parallelo c’è il quadro mediorientale. Netanyahu e i suoi sostenitori (che forse sarebbe più giusto chiamare complici) non desistono dal disegno di totale annientamento dell’enclave di Gaza. L’obiettivo ormai non è neppure più la sconfitta di Hamas e della Jihad islamica, che di fatto sono alla frutta tanto che è sorta una opposizione palestinese interna alla Striscia che delle furie autodistruttive di quei terroristi non ne può più. Si punta, sulla spinta dello stupido sionismo messianico, alla ricolonizzazione di Gaza, ma questo difficilmente resterebbe senza una risposta del mondo islamico.
Anche in questo caso la speranza, pur flebile, è che dentro Israele le forze ragionevoli riescano a scalzare la coalizione al governo: purtroppo hanno pochissimo sostegno internazionale e si battono in condizioni molto difficili. Le infantili intemerate che in Occidente sostengono la causa palestinese senza aver ben presente la complessità della situazione forniscono in realtà un indiretto supporto alla politica neo imperiale dell’attuale governo israeliano.
Ci sarebbe molto bisogno di azioni politicamente consapevoli e razionalmente orientate, ma sembra un bene di cui c’è al momento notevole carenza.
(da mentepolitica.it )