In questi giorni si sono sollevate accese polemiche a proposito della prossima votazione referendaria, prevista per i giorni 8 e 9 giugno. Com’è noto, i cinque quesiti sono così suddivisi: quattro investono alcune normative in materia di lavoro, mentre uno riguarda la concessione della cittadinanza agli extra comunitari. Ma al centro della diatriba non è stato il merito delle proposte bensì il modo di condurre la campagna elettorale. Autorevoli esponenti del centro sinistra si sono lamentati del fatto che altrettanto autorevoli esponenti del centro destra, e anche il presidente del Senato, si siano pronunciati a favore dell’astensione, al fine di invalidare l’esito delle urne. A loro avviso questo atteggiamento non solo sarebbe sleale ma getterebbe discredito sulle istituzioni, perché il voto oltre che un diritto è un dovere civico. Rispetto a queste argomentazioni, la prima cosa che viene in mente non è un giudizio di valore ma un giudizio di fatto. In passato lo stesso copione è stato recitato a parti invertite, nel senso che in precedenti consultazioni referendarie sono stati esponenti del centro sinistra a invitare all’astensione.
Tuttavia il problema, al di là del calcolo di convenienza che motiva le posizioni espresse in questa e in altre occasioni, per essere correttamente giudicato necessita di alcune considerazioni aggiuntive.
Conviene anzitutto ricordare perché la Costituzione preveda il quorum della maggioranza degli aventi diritto al voto per far sì che il referendum sia valido. Le leggi sono votate dal parlamento che è espressione di una maggioranza frutto di una consultazione elettorale. Posta tale premessa, appare logico immaginare che per smentire l’operato del parlamento si sia ritenuta necessaria una maggioranza degli elettori.
Per una lunga stagione il problema del quorum non si è posto. La legge istitutiva del referendum risale al 1970 mentre la prima consultazione elettorale referendaria si tenne nel 1974. A quell’epoca la partecipazione elettorale era molto elevata e anche le votazioni referendarie vedevano una partecipazione popolare assai ampia.
Con la diminuita partecipazione elettorale, manifestatasi oramai da alcuni decenni, è venuto in primo piano anche il problema del quorum per i referendum. Sempre più spesso, infatti, le consultazioni referendarie sono risultate invalide. Dal 1997 ad oggi su trentaquattro referendum il quorum è stato raggiunto in un’unica occasione, per quattro referendum. Gli ultimi referendum che hanno raggiunto il quorum sono stati quelli del 2011 sull’acqua e sulla ripresa dell’energia elettronucleare in Italia; un risultato dovuto a una ragione contingente. A marzo di quell’anno si era verificato un grave incidente nella centrale nucleare di Fukushima in Giappone. Un episodio che aveva rinfocolato i timori per l’utilizzo civile del nucleare e aveva spinto un considerevole numero di elettori alle urne.
Un tentativo di rivitalizzare l’istituto del referendum è stato fatto con la riforma costituzionale del 2016, bocciata dagli elettori. Quella riforma prevedeva, tra l’altro, che il quorum andasse calcolato non sugli aventi diritto al voto ma sulla percentuale dei votanti registratasi alle ultime elezioni politiche. Se la riforma fosse entrata in vigore, alla prossima consultazione referendaria il quorum sarebbe stato di poco meno del 32% e non del 51%. Una percentuale assai più facile da raggiungere.
In conclusione, al di là delle polemiche strumentali, se vogliamo che il referendum torni ad essere un istituto vitale e le campagne referendarie siano un confronto di opinioni, la strada è tracciata: occorre modificare la Costituzione riprendendo la formulazione del 2016. Si tratta di una riforma mirata, d’impianto bipartisan, che può essere realizzata in tempi rapidi. A quel punto l’invito all’astensione non sarà più né legittimo né conveniente.
(da mentepolitica.it )
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