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Referendum, la sconfitta del massimalismo

Referendum, la sconfitta del massimalismo

di Paolo Pombeni

Si è chiusa anche la lunga agitazione per i referendum ostinatamente voluti dalla CGIL e si è chiusa con una sconfitta chiara per i promotori. Per la verità il segretario Landini ha ammesso con molta trasparenza che sin dall’inizio era cosciente che difficilmente avrebbe raggiunto l’obiettivo dell’approvazione dei quesiti, ma che considerava conseguito quello di avere portato in piazza il tema ed il ruolo del suo sindacato raccogliendo il consenso di quasi un terzo del corpo elettorale.
Si è detto che era la solita via per addolcire una sconfitta, ma non è proprio così. Per capire cosa è successo nel profondo del sistema politico bisogna guardare dalla prospettiva della battaglia del massimalismo per imporre la sua egemonia: storicamente il massimalismo è sempre relativamente interessato alle vittorie immediate, perché rinvia tutto ad un momento finale apocalittico per preparare il quale va benissimo fare intanto il più possibile “agitazione” e movimentismo.
Non dovrebbe essere questo l’obiettivo di un sindacalismo consapevole (quello “rivoluzionario” si pensa abbia esaurito il suo tempo) e infatti per esempio la CISL si tiene ben lontana da quei lidi, ma siamo davanti ad una inclinazione che ha una sua storia. Più complicato è valutare la prospettiva dal punto di vista dei partiti di sinistra o comunque di centro-sinistra (la destra usa altri strumenti di agitazione populista). In questo caso c’è infatti da chiedersi come mai da quelle parti ci si sia accodati all’iniziativa di Landini e compagni. Non stupisce, ovviamente, per l’estrema sinistra di AVS e simili che è una espressione, neppure più di tanto davvero politica, del massimalismo. È comprensibile sul versante M5S che è nato e continua a vivere per infilarsi in ogni agitazione possibile, senza neppure troppa preoccupazione di coerenza, visto che è una formazione di “movimento” senza alcuna elaborazione ideologica e/o progetto politico gestibile. Suona più che problematico per il PD che nasce dalla fusione, per quanto a freddo e mal riuscita, fra due tradizioni di politica propositiva, quella della sinistra storica comunista e socialista e quella della sinistra democratico-cristiana.
Ciò che è successo conferma la confusione (chiamarla trasformazione genetica ci sembra farle troppo onore) che si è introdotta in quel partito con l’ascesa alla segreteria di Elly Schlein che si è portata dietro un gruppo di variegata provenienza e conformazione. Tutto era nato dalla frustrazione per una egemonia del nuovo PD che non si riusciva a stabilire, per cui si è fatta strada e poi affermata la convinzione che dipendesse dal fatto che non si era abbastanza “di sinistra” (il mito del mondo alternativo che alla fine si imporrà se si è davvero radicali è fra quelli costitutivi di una certa componente). Così si è arrivato alla guida un gruppo dirigente legato al movimentismo (dentro e a lato dell’alveo storico della sinistra) che spinge il PD sulla via della alternativa presunta radicale, favorito in questo dall’affermazione al governo di una coalizione di destra(-centro) che consente di rinverdire i riferimenti mitologici alla grande lotta contro il fascismo.
È con questo alle spalle che il PD guidato da Schlein e soci si è buttato nella campagna referendaria che aveva l’illusione di affermare la centralità di una nuova “questione operaia” guidata dal grande sindacato di sinistra. Peccato che la questione in quei termini non esistesse più e che fosse senza senso l’attribuirne la colpa alla sinistra riformista che aveva, ai tempi del governo Renzi, cercato di prendere atto delle novità: era la riproposizione, neppure veramente cosciente, della lotta mitica dei massimalisti contro i tradimenti dei riformisti vendutisi al liberalismo.
Il risultato del voto referendario, lasciamo ovviamente da parte il quesito sui termini per richiedere la cittadinanza appiccicato agli altri senza connessione, è che due terzi persino un po’ abbondanti dell’elettorato hanno giudicato di nessun interesse la chiamata alle armi del fronte sindacal-partitico e non sono andati a votare. È una questione di democrazia, come sostiene Landini? No, è il fatto che i veri temi che angosciano il Paese in questo momento, i salari bassi, la crisi del sistema assistenziale, le difficoltà di funzionamento della macchina pubblica, stavano fuori dei quesiti presenti sulle schede e che non c’è fiducia in larga parte dell’elettorato che una “spallata” a vanvera a colpi di sì a sostegno delle bandierine massimaliste possa far cambiare le cose.
Una riflessione su tutto questo andrà fatta, ma, diciamolo con franchezza, non solo da parte del PD e nelle file del campo più o meno largo, ma anche da parte di una maggioranza di governo che tende a crogiolarsi nella convinzione di avere vinto (facile). Da parte di tutti andrà considerato seriamente che non si può lasciar andare una situazione piena di debolezze, che prima o poi presenteranno il conto. Si approfitti di un momento economicamente abbastanza buono (lo spread è sceso ulteriormente), per affrontare con interventi legislativi e con impegni di razionalizzazione amministrativa e non solo i non pochi problemi che abbiamo davanti, mettendo da parte l’illusione che servano le scorciatoie: sia quelle dei massimalismi, che quelle dei populismi demagogici, due facce per quanto opposte della stessa medaglia.
(da mentepolitica.it)

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