Dici: “Roma” e pensi la città. Per un minuto: quello successivo si tinge già di giallorosso, perché Roma è la città di Francesco - non unicamente del Papa, ma di Totti, il numero dieci della “magica”. Il perché della celebrità di Francesco Totti non sta solo nella sua nobilissima carriera sportiva, o nel sempre più raro attaccamento alla maglia, ma è racchiuso nel fatto che Totti è il “pupone” che vive in ognuno di noi, anche in quelli che se dici: “pallone”, pensano a un aerostato. Tra le moltissime odi al capitano, una spicca e spiega meglio di altre il potere identificativo della sua figura, ed è una canzone di un cantautore, nato e cresciuto anche lui nella periferia della Capitale, Marco Conidi. “Anche io sono Francesco/nei giorni in cui riesco/ad evitar scianghette e falli in questo posto/ In questo grande prato che chiamano la vita/anche io sono Francesco/anche io ho la mia sfida”. La metafora è chiara, ogni gol di Totti è un gol di chi ha un Totti dentro, uno cioè che vive la vita come una partita. Ma il che sarebbe un po’ superficiale. C’è di più: c’è il senso d’appartenenza, c’è l’aggregazione più convinta della contemporaneità – quella del tifo – di gran lunga superiore a quella politica o sociale. Il proclama: “Anche io sono Francesco”, racchiude il perché di una vita. Tuttavia qualcuno può chiedersi dove sia il “genio”. Se esista davvero la possibilità che di assegnare qualcosa di “geniale” a un calciatore. Ma non è forse geniale appartenere a un’unica maglia per vent’anni, in un mondo dominato dal nomadismo milionario? E farne vanto, consapevole di quanti trofei in meno abbia vinto a causa di questa scelta di fede? Non è stato forse geniale raccogliere tutte le barzellette e le cattiverie dette sul suo conto, farne un libro e destinarne i proventi in beneficenza all’Unicef? Non è geniale subire una frattura alla caviglia tre mesi prima di un mondiale, giocarlo ugualmente con una placca di metallo infilata nella gamba e vincerlo? Forse sì, forse no. Forse può essere un’iperbole da “calciomane”. Oppure ha ragione Osvaldo Soriano, il più grande scrittore di calcio del mondo. Che è argentino, ed è morto nel 1997, e che quindi difficilmente è stato un tifoso di Totti. “Ci sono tre generi di calciatori – scrive Soriano -. Quelli che vedono gli spazi liberi, gli stessi spazi che qualunque fesso può vedere dalla tribuna, e sono soddisfatti quando la palla cade dove deve cadere. Poi ci sono quelli che all’improvviso ti fanno vedere uno spazio libero, uno spazio che tu stesso e forse gli altri avrebbero potuto vedere se avessero osservato attentamente. Quelli ti prendono di sorpresa. E poi ci sono quelli che creano un nuovo spazio dove non avrebbe dovuto esserci nessuno spazio. Questi sono i profeti. I poeti del gioco”. Chi ha visto giocare Francesco Totti sa benissimo dove piazzarlo. E a quel punto, di sicuro canterà: “Anche io sono Francesco”.
(Marco Caparrelli – Valerio de Filippis)
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