“Scusate dobbiamo interrompere la selezione delle partite di Serie A, che verrà comunque ripresa tra poco, per una ragione veramente tremenda: è morto Gaetano Scirea in un incidente stradale in Polonia, dove si era recato per seguire la squadra che sarà prossima avversaria della sua Juventus nella Coppa. È inutile spendere parole per un uomo che si è illustrato da solo per tanti anni su tutti i campi del mondo, che ha conquistato un titolo mondiale con pieno merito e che soprattutto era un campione non soltanto di sport ma di civiltà”. Il 3 settembre del 1989, la voce rauca e familiare di Sandro Ciotti interrompeva la routine di una domenica italiana, come sempre accompagnata dal pallone e dai suoi riti, annunciando in diretta tv la tragica fine di Gaetano Scirea. Parole che, oltre il velo della retorica, restituiscono la crudeltà del destino ancora oggi, un quarto di secolo dopo. Oltre le bandiere, oltre il campo, oltre il tempo, “Gai” resta non perché ha vinto praticamente tutto quello che c'era da vincere, con la maglia della Juventus e della Nazionale, non perché ha contribuito a forgiare il ruolo di libero, ormai archeologia del calcio, interpretandolo in maniera sublime. Scirea resta perché ha mostrato a tutti come si vince (o meglio, si vive) con “umanità e garbo”, dando esempio - come ricorda la sua Juventus nel venticinquesimo anniversario della scomparsa - di “lealtà e correttezza in campo grazie alla classe cristallina di cui era dotato, che gli permetteva di ergersi tra gli avversari con eleganza e intelligenza”. Scirea, come disse Ciotti, "si è illustrato da solo su tutti i campi del mondo”: mai un’espulsione in carriera. Che altro dire? “A me quello che manca veramente di mio marito è il suo sorriso e la sua risata, risata sana, vera, devo dire che ogni tanto mio figlio (Riccardo, ndr) assomiglia un po’ a suo padre” racconta la moglie Mariella in una recente intervista a Rai Sport. Tra le pieghe private e pubbliche della memoria, il sorriso di Gaetano c'è sempre, come nel ricordo di Darwin Pastorin, uno che il cammino di giornalista l’ha intrapreso sulle tracce della Vecchia Signora: “Aveva un sorriso lieve, una generosità senza confini e alla fine di ogni intervista, potevi essere l’editorialista del New Yorker o il collaboratore di una radio privata di quartiere, ti diceva sempre ‘grazie’”. Che iato rispetto a certi isterismi nelle interviste post gara di calciatori e allenatori, o all’ignorante protervia di certi “fenomeni” del nostro calcio (o più in generale, del nostro Paese), ubriachi di una fama non sempre meritata. Quel maledetto 3 settembre del 1989 si è interrotta non solo la routine di una domenica italiana, non solo la parabola di un campione agli inizi della sua seconda vita (quella che per i calciatori comincia dopo l’addio, più o meno sofferto, al calcio giocato), ma molto di più. “Era un’inconsueta figura di leader silenzioso, ruolo che esercitava alla sua maniera” spiega il neo team manager dell'Italia Lele Oriali, bandiera dell’Inter e insieme a Scirea nel vittorioso Mondiale dell'82 in Spagna. Un altro suo compagno dell’avventura Mundial, Ciccio Graziani, uno che la Juventus l’ha vissuta sempre da avversario avendo militato nelle fila di Torino, Fiorentina e Roma, ha dedicato queste parole all’amico che non c’è più: “A volte mi domando perché è successo? Proprio a te ragazzo sincero, dov’è questo nesso? Beh, guardando la faccia di San Pietro ho subito capito: manca un vero capitano in Paradiso. La certezza è che un dì ci rincontreremo, la gioia è che giocando ancora insieme vinceremo”. Amato da compagni e avversari, Scirea è riuscito in un’impresa disperata: unire questo Paese. Con l’esempio, senza troppe parole. Il “silenzio” di Gaetano, così stridente in un calcio (o in un Paese) reso sordo dal frastuono dei parolai, lo ricorda bene anche Dino Zoff, suo compagno di squadra nella Juve e nella Nazionale, o meglio una sorta di fratello maggiore per Gai. All’epoca dell'incidente, Zoff allenava la Juve e Scirea era il suo vice. Quella maledetta domenica, la Juve rientrava da una trasferta a Verona: “I cellulari non esistevano. Arrivati a Torino - rievoca Zoff in un'intervista a Repubblica - il casellante ci disse quella cosa, non volevo crederci. Il pullman raggiunse lo stadio, dove avevamo lasciato le auto. Era pieno di giornalisti. Diedi un calcio fortissimo alla fiancata”. Da quella maledetta domenica, racconta Dino, “Gaetano torna sempre. Lo penso a ogni esagerazione di qualcuno, a ogni urlo senza senso. L’esasperazione dei toni mi fa sentire ancora più profondamente il vuoto della perdita. Gaetano mi manca nel caos delle parole inutili, dei valori assurdi, delle menate, in questo frastuono di cose vecchie col vestito nuovo, come canta Guccini. Mi manca tanto il suo silenzio”. Oltre le bandiere, oltre il campo, oltre il tempo.
Roberto Calabria
(© 9Colonne - citare la fonte)