di Paolo Pagliaro
(20 settembre 2019) Tempo fa, al Festival dell’Economia di Trento, l’epidemiologo Giuseppe Costa presentò un rapporto sulle disuguaglianze di salute in Italia. Dai dati risultava che tra il quartiere più ricco di Torino, Superga, e quello più povero, Vallette, l’aspettativa di vita scendeva in media di 4 anni.
La ricerca – basata su dati dell’Istat e dell’Istituto superiore di sanità - dimostrava che chi è più povero di capacità e risorse è più esposto a fattori di rischio per la salute, si ammala più spesso, in modo più grave e muore prima. Oggi un uomo con la laurea può contare di vivere 5 anni in più di chi ha la sola licenza elementare.
Quella delle disuguaglianza è diventata una questione di vita o di morte anche per il futuro della democrazia. Lo sanno i politici più avveduti. Ne sono convinti ricercatori e organizzazioni del Forum disuguaglianze e diversità che in primavera hanno presentato le loro 15 proposte per la giustizia sociale. Ne è convinto l’economista Thomas Piketty, che allo studio delle inuguaglianze dedica anche il suo nuovo monumentale saggio – “Capital et Idéologie” – uscito la settimana scorsa in Francia. 17 capitoli, 1.200 pagine per indagare sulle radici ideologiche delle disparità tra gli esseri umani e per mettere sotto processo una socialdemocrazia incapace di contrastarle.
Tra i 160 grafici proposti da Piketty ce n’è uno che analizza il voto in funzione dei livelli di studio, reddito e patrimonio. E fa vedere che i partiti socialdemocratici in Francia, nel Regno Unito, negli Stati Uniti e in altri paesi hanno subito tutti la stessa evoluzione: mentre dagli anni Cinquanta agli Ottanta raccoglievano i voti dei meno qualificati e dei più poveri, ora sono diventati il partito di chi ha studiato di più, dunque dei diplomati e dei laureati. I vecchi elettori, i meno ricchi, sono stati abbandonati al loro destino.
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