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Cassese e il ruolo
degli intellettuali

Cassese e il ruolo <br> degli intellettuali

di Francesco Provinciali

Il libro di Sabino Cassese, eminente giurista, già Ministro e Giudice Emerito della Corte Costituzionale, non poteva forse trovare collocazione migliore di quella che la casa editrice Il Mulino gli ha riservato nella collana “parole controtempo”. E nell’incipit della sua opera l’autore riassume una formula che spiega perché egli abbia dedicato la sua riflessione al tema degli “intellettuali”, una tipologia metastorica di pensatori, che origina dagli esordi delle prime civiltà e conserva vivi ed attuali il suo ruolo e la sua missione: “se uno vale uno, l’uno vale l’altro, non c’è differenza tra il sapiente e l’ignorante”. Ed è proprio nei “tempi bui” che si avverte l’assenza e insieme la necessità degli intellettuali, oltre a quella dei mezzi di cui possano avvalersi per farsi ascoltare”. Non è necessario un tomo ponderoso al Prof. Cassese per esplicitare la sua argomentazione sul tema, gli sono sufficienti un centinaio di pagine ed una appendice ricca di citazioni bibliografiche che esprimono una cultura metabolizzata che apre ad una visione ampia della realtà.

Perché un vero intellettuale è innanzitutto una persona colta e desiderosa di conoscere e di sapere, requisiti necessari e prodromici per chi vuole spiegare, “disvelando” e illuminando. In ciò si distingue dal ciarlatano che discetta di tuttologia senza radicati fondamenti e convincenti spiegazioni: una congerie che si è andata diffondendo nel corpo sociale per una molteplicità di fattori.
La semplificazione culturale, la perdita della memoria storica, la globalizzazione digitale che ha favorito un accesso indiscriminato a residuati pseudoculturali fondati su luoghi comuni e dicerie impulsive dilaganti nel web, l’omologazione del ‘pensiero pensato’ che circola e viene metabolizzato senza il discernimento del ‘pensiero pensante’ e critico, in parte il fallimento del ruolo della scuola e poi la pluralità delle agenzie formative, l’avvento di una generazione di sedicenti esperti che dispensano saperi fast food, l’obsolescenza della tradizione come fonte ineguagliabile cui attingere: perché la cultura è sempre un mix di ratio e traditio, di cambiamento e di conservazione. Le epoche di crisi e di smarrimento, e noi viviamo quella ereditata dalla deriva d’inesorabile dissoluzione dell’identità che ha percorso tutto il ‘900, sono – come lamentava lo storico Johan Huizinga nel 1935 – caratterizzate da un ‘generale indebolimento del raziocinio’.
L’intellettuale rischia oggi – come sempre nella storia – una marginalizzazione rispetto agli orientamenti culturali pervasivamente diffusi ed acriticamente assunti: quanto in ciò possa influire una politica miope e priva di lungimiranti ispirazioni Cassese non lo dice in modo esplicito ma lo lascia certamente intendere. Una società senza guida brancola nel limbo dell’indeterminato e lo spaesamento che da qualche decennio viviamo, sia esso determinato da una fluidità inafferrabile come descritto da Zygmunt Bauman o privo di approdi rassicuranti come iconicamente evocato nella rappresentazione del naufragio, riconsiderata da Hans Blumenberg come paradigma di una metafora dell’esistenza, esprime sempre una condizione di precarietà.
Sabino Cassese, persona colta ed esso stesso fine intellettuale, ricco di esperienza e di sapientia cordis, ritiene necessaria una caratterizzazione epistemologica del ruolo, della funzione, dei compiti e della stessa ragion d’essere della figura dell’intellettuale, partendo da una dissimulazione di ciò che “non è “. Non l’aristocratico che si erge sugli altri, non il seguace di Epicuro che vive nascosto, non lo “specialista” disciplinare, né l’erudito per somma di cognizioni, non il narcisista che detta lezioni.
Quali sono dunque secondo Cassese i requisiti pertinenti ed utili a connotare questa figura umana?  La prima dote è l’istinto esploratore, la seconda il sicuro possesso del passato (“camminiamo su orme” e la vita “è riempire di presente le forme mitiche originarie” – Thomas Mann), poi una funzione cosmopolita ( il saper far dialogare “gli hommes d’esprit” come intuì Paul Valery), infine “l’intima dedizione al proprio compito e una grande probità”, potremmo chiamarla ‘rettitudine’ poiché è requisito che si avvalora nei propri comportamenti e nel loro riconoscimento da parte degli altri.
Potremmo riunire queste precipue doti con una capacità che le riassume: quella di saper argomentare e di dialogare con tutti, favorendo in ciò la crescita culturale del singolo e della società. Un fermo immagine concettuale che ricorda l’idea di educazione in Emile Durkheim, una capacità maieutica e una abilità ordinativa, di indirizzo, apertura, confronto, orientamento. Nulla a che vedere con la platea degli opinionisti o degli influencer oggi prevalenti (e in ciò si giustifica il disagio degli intellettuali nel sentirsi spesso incompresi o sottostimati) : se ne deduce che il loro valore si misura ‘dopo’, nel tempo e nella lungimiranza dei temi e della loro trattazione. Uno scenario riscontrabile e tangibile nella pochezza culturale dei talk show televisivi, per non parlare del linguaggio e dei social, generalmente usati come contenitori dove svuotare le proprie irrazionali e irragionevoli pulsioni, un universo indeterminato e cangiante di apparenze effimere e virtuali, dove è più facile perdersi che ritrovarsi.  Come disse Mozart… “tutto è stato composto ma non ancora trascritto”: compete dunque agli intellettuali – che hanno una formazione accademica e alta e sono spinti dal desiderio di apprendere, misurare e commisurarsi, il compito di “saper leggere” le profondità nascoste, per farle emergere come beni comuni, sentieri culturali aperti che tutti potrebbero percorrere.
Il compito degli intellettuali è dunque quello di assumere il sapere e la conoscenza come doveri per “far trasparire” la visione più ampia delle cose: Sabino Cassese approfondisce questo concetto e lo arricchisce di ulteriorità. Un intellettuale deve innanzitutto “definire il significato dei concetti e delle parole”, per stabilire una grammatica condivisibile, deve poi valorizzare il passato come fonte di conoscenza consapevole e ciò vale tanto per la filogenesi quanto per l’ontogenesi, suo compito è generare il gusto, l’illuminazione del sapere più che il fornire nozioni (“non riempire il secchio ma accendere il fuoco”, secondo la metafora di Plutarco ripresa da Rabelais) , indi fornire spiegazioni e chiavi di lettura, favorire l’uso pubblico della ragione, deve infine agevolare la coesistenza di pensiero e azione, teoria e pratica, “innovando con modi nuovi gli ordini antiqui” (Machiavelli) , in ultimo favorire i processi di universalizzazione della cultura mediante una visione cosmopolita della realtà.
Senza dimenticare che essere intellettuali per vocazione o per scelta è un dono che deve essere messo al servizio dell’umanità per insegnare soprattutto il metodo della riflessione e l’uso del pensiero critico come strumenti di nobilitazione della condizione umana: questo implica in nuce il possesso della necessaria umiltà, per evitare che il tutto sia colto come l’intenzione di impartire una lezione. 

Viene in mente un’espressione usata da Sant’Agostino nel descrivere gli uomini di fede, cui competono responsabilità e doveri nei confronti del popolo dei credenti: usandola qui, in senso laico, essa vale per costoro ma a maggior ragione oggi ancor di più per i miscredenti, i negazionisti, i nichilisti in questa epoca di rimescolamento di valori, di intorbidamento della realtà e di preclusioni dogmatiche. Potremmo dire con Sant’Agostino, dunque, che gli intellettuali sono come i “montes”, le montagne che sono le prime ad indicare e godere l’apparire, il sorgere del sole. Cogliere per primi la luce e il calore assegna agli intellettuali un compito che contiene dunque una potenzialità espressiva straordinaria. 

(da .mentepolitica.it)  

 

 

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