di Paolo Pagliaro
Ciò che sta accadendo, Boris Pahor, lo scrittore triestino scomparso oggi all’età di 108 anni, lo aveva in qualche modo previsto e temuto. “Dopo quello che il secolo ventesimo ha patito, dal fascismo al nazismo fino al comunismo sovietico, la gente – aveva detto Pahor tempo fa in un’intervista - avrebbe dovuto sentire questa felicità della libertà, del respiro dell’uomo libero. E invece siamo diventati vigliacchi: conta solo l’interesse personale, tutto il resto è dimenticato”.
Pahor, cittadino italiano di lingua e cultura slovena, con i suoi libri e le sue parole ha tenuto vivo il ricordo degli orrori vissuti nel Novecento: le due Guerre Mondiali, la repressione fascista, i campi di concentramento nazista, le persecuzioni nella Jugoslavia comunista di Tito, l’odio nazionalista.
In uno dei suoi capolavori, "Necropoli". Pahor torna nel lager dove era stato rinchiuso, “uomo vivo nella città dei morti” come scrive Claudio Magris nella prefazione. Pahor osserva i turisti, la guida che si guadagna il pane mostrando il tavolo su cui un professore di Salisburgo effettuava vivisezioni e prove batteriologiche sui deportati , specialmente ma non soltanto zingari. Vede anche due innamorati che si baciamo davanti al reticolato.
Lo scrittore ne resta turbato, ma poi dice a se stesso che è puerile trasferire questi due ragazzi nel mondo di una volta. Come non avrebbe senso chiedersi a chi, nel lager, sarebbe mai venuto in mente che in quel posto un giorno avrebbero passeggiato coppiette innamorate.
“Noi – conclude Pahor - eravamo immersi in una totalità apocalittica, nella dimensione del nulla; quei due invece galleggiano nella vastità dell’amore, che è altrettanto infinito, e che altrettanto incomprensibilmente signoreggia sulle cose”.