A vedere come si sta sviluppando la campagna elettorale non sembrerebbe di trovarsi di fronte a partiti che ragionano nei termini della futura legislatura che, se sarà normale, durerà cinque anni. Per lo più si va avanti a slogan, o al massimo si pensa ai problemi contingenti. Alcuni sono molto seri, come la crisi economica che si prospetta a seguito delle emergenze nel campo energetico o anche, più brutalmente come ha ricordato il presidente francese Macron, perché è finita “l’età dell’abbondanza”. Tuttavia anche per queste ragioni si renderà necessario sistemare il quadro delle nostre istituzioni, per metterle in grado di rispondere in maniera efficace alle dure prove che ci attendono. Ad essere vissuta come una questione istituzionale è attualmente solo la proposta di introduzione di un sistema presidenziale, obiettivo malamente presentato da Giorgia Meloni che prima l’ha buttato sul tappeto nei termini vaghi di far scegliere agli elettori il vertice della nazione e poi, sommersa da varie critiche, ha un po’ ma non molto raddrizzato il tiro. La questione è molto complicata, ridurla alla banale storiella del tentativo di introdurre in Italia una democrazia illiberale sul modello dell’Ungheria di Orban è una mistificazione polemica.
Il tema era presente già nell’assemblea costituente, quando alcuni proposero di accogliere il modello americano lasciato cadere perché, come disse il presidente della Commissione per la stesura della Carta, Meuccio Ruini, incombevano le ombre di Napoleone, Mussolini e Hitler. Poi il tema si è ripresentato per il successo della variante francese introdotta da De Gaulle negli anni Sessanta, fu ripreso da Craxi nell’ipotesi che una elezione diretta del presidente della repubblica potesse costringere a quell’unità fra socialisti e comunisti che in Italia non si riusciva a fare. In seguito è stato più che altro un tema accademico che si è confuso con quello di promuovere una stabilità dei governi che sembrava impossibile in un regime parlamentare con maggioranze sempre più confuse e instabili.
In realtà il nostro sistema istituzionale ha bisogno di una seria messa a punto, perché la seconda parte della nostra Costituzione è stata frutto di una fase di incertezze e contrasti in cui non si voleva che un partito potesse “occupare” tutto il potere a scapito degli altri. Questo ha dato luogo ad una prassi crescente in cui per la verità si è stabilita una specie di regola informale per la quale i partiti di maggioranza si spartivano quasi tutto il sotto-potere e quando questo non è più stato possibile si è ovviato con una spartizione più o meno pro quota di quelle risorse (il cosiddetto consociativismo). Quando si è arrivati con la seconda repubblica ad una situazione di alternanza al potere, il vincitore di turno ha cercato di tenersi tutto, salvo poi a cedere questo privilegio al suo successore di diverso colore. Vedere quel che è accaduto alla RAI che è l’emblema di questo modello di gestione, ma bisogna dire che negli enti locali e nelle regioni, spesso presentate come modello di istituzioni il cui vertice è scelto direttamente dai cittadini, non è che ci si comporti in maniera diversa.
Trasferire questa mentalità anche a livello dell’istituzione quirinalizia che dovrebbe avere una funzione arbitrale e regolamentatrice della dialettica politica (anche se nella sua storia non sempre lo è stata) non ci pare un’idea brillante. Invece ragionare su una risistemazione dei nostri meccanismi per creare sia rappresentanza che decisione politica (due aspetti concorrenti) è assolutamente necessario. Non lo si può fare però con colpi di mano sfruttando la maggioranza parlamentare del momento per poi finire falciati dal referendum confermativo: lo si è già tentato con opposti padrini e non è andata bene. Chiamare il paese a maturare una riorganizzazione profonda del nostro quadro istituzionale sarebbe invece necessario per riconquistare quella sintonia fra i cittadini e la “macchina pubblica” che è sempre necessaria, ma specialmente in fasi di emergenza. Lo si è tentato con l’esperimento della quasi unità nazionale, ma pur avendo la miglior guida possibile, la classe politica si è affrettata, più o meno direttamente, a liquidarlo.
Ora sarebbe necessario avviare un ampio confronto sul complesso dei problemi istituzionali, che sono correlati. Un piccolo elenco. Innanzitutto il tema dell’individuazione di un sistema elettorale che mandi in pensione l’attuale legge truffa scritta dai partiti per decidere direttamente la rappresentanza del paese tagliando fuori gli elettori da un coinvolgimento dialettico chiedendo invece “atti di fede” nei vari capi politici. In secondo luogo la questione delle leggi fiscali. Non si può continuare a presentare subdolamente le tasse come forme di esproprio dei cittadini, mentre si lascia in piedi un sistema pieno di esenzioni, casi particolari, tassazione indiretta senza controllo e via elencando (per tacere del livello indecente di evasione). La formazione del “tesoro pubblico” a cui lo stato e le sue articolazioni attingono per garantire il funzionamento di un “sistema” che deve essere al servizio delle necessità della popolazione è un dato storico non eliminabile. È però necessario che il sistema sia equo e trasparente, sia nella distribuzione dei “pesi” sui cittadini, sia nella garanzia che le risorse raccolte vengano spese nell’interesse della collettività intera e non per sostenere clientele delle più varie tipologie.
Infine il tema della distribuzione delle funzioni di decisione e di controllo nella vita pubblica. Possiamo metterci il governo, il parlamento con il superamento dell’assurdo bicameralismo fotocopia, la funzione di arbitraggio e di orientamento che deve competere a chi rappresenta l’unità della nazione messe da parte le divisioni politiche. Tutte questioni che hanno molteplici possibilità di soluzione fra cui si dovrà scegliere non sulla base di ragionamenti astratti di ingegneria politica, ma avendo ben presente che ogni nazione ha una storia da cui necessariamente partire.
È di una legislatura costituente che l’Italia ha bisogno. Nel parlamento che si sta per eleggere qualche competenza indubbiamente ci sarà, ma non basta. I politici, specie quelli più arrembanti e meno competenti, non vorranno vedersi marginalizzati, ma se la sfida del rinnovamento del sistema si vuole vincere sarà necessario cercare nel profondo del paese. Del resto le grandi riforme costituzionali si fanno così.
(da mentepolitica.it)
(© 9Colonne - citare la fonte)