Ogni qualvolta avviene una tragedia in mare, come quella avvenuta a Cutro, si dà la stura alle ormai scontate polemiche sulla negligenza dell’Unione Europea, sulle modalità di accoglienza e integrazione degli immigrati, sugli interventi per “aiutarli a casa loro”, e così via. È implicito un rinvio ad altri tempi che nessuno è in grado di prevedere, considerando la molteplicità degli interessi e delle istituzioni che devono convergere alla ricerca di soluzioni condivise. In attesa che la politica si metta d’accordo, l’economia può fare qualcosa? Due sono le realtà che emergono: da un lato le imprese che denunciano le difficoltà di trovare il personale da assumere, che riguardano non solo le qualifiche professionali innovative create dalle nuove tecnologie digitali ma anche quelle più tradizionali impiegate nella meccanica, edilizia, turismo; dall’altro i crescenti flussi immigratori, alimentati da quanti si mettono in viaggio alla ricerca di una vita migliore, tra i quali molti giovani non privi di istruzione e di volontà di apprendere. Queste due realtà, oggi contrapposte, possono integrarsi con reciproco vantaggio?
Di certo, non va dimenticato che anche nel nostro Paese esiste una riserva di manodopera non occupata o sottoccupata da recuperare al mercato del lavoro, ma sono note le rigidità delle nostre istituzioni pubbliche della formazione e dell’avvio al lavoro che fanno prevedere tempi non brevi per sanare il disallineamento in atto tra domanda e offerta del lavoro. Le imprese e le associazioni di categoria sono avvertite di queste inefficienze strutturali di lunga durata e si stanno impegnando per soddisfare i loro fabbisogni occupazionali, aprendosi anche al lavoro degli immigrati. La Confindustria Emilia ha fatto proprio il progetto di Asso Ceramica che, partendo dall’analisi dei posti di lavoro da coprire, ha proposto l’apertura di centri di formazione nei paesi terzi che offrono le migliori opportunità. Il settore delle telecomunicazioni ha denunciato la mancanza di 16 mila figure professionali (dalla messa in posa dei cavi ai collaudatori di rete), attribuendo a tale carenza, più che agli extracosti, il rischio della mancata attuazione dei progetti assegnati dal PNRR.
Le soluzioni messe in campo prevedono una serie di iniziative per attrarre ed assumere nuovo personale, in sinergia con imprese estere per le qualifiche più professionalizzate e il ricorso ai mercati del lavoro dell’immigrazione per le qualifiche professionalmente meno impegnative, molte delle quali condivise con l’edilizia.
L’elenco potrebbe continuare, ma ciò che conta è l’emergente disponibilità delle Associazioni industriali di categoria a prendersi cura della selezione e della formazione di immigrati per soddisfare i bisogni occupazionali delle imprese aderenti.
Questo impegno è però ostacolato a livello politico, che è la sede dove si decretano i flussi di immigrazione, ma che è restia ad accogliere le richieste del mondo produttivo, per quanto si tratti di lavoro immigrato formato e retribuito sulla base dei contratti di lavoro vigenti.
Si ripropone il noto disallineamento fra le regole della politica e quelle dell’economia, per quanto siano in gioco progetti finanziati dal PNRR che la stessa politica ha promosso e la cui realizzazione deve avvenire entro tempi rigorosamente predefiniti. Nessuno sottovaluta la complessità sistemica del fenomeno immigratorio, ma quando si aprono opportunità per una immigrazione regolare a sostegno di una carenza occupazionale, assecondarle è nell’interesse generale del Paese. Il riconosciuto primato della politica, in questa delicata materia, si rafforza se entra in un gioco cooperativo con gli attori del mercato che, disponendo delle conoscenze più appropriate per realizzare i loro progetti di sviluppo, sono in grado di contribuire a soluzioni parziali del fenomeno immigratorio ma non per questo meno significative.