Il paradosso, la provocazione, l’erudizione, la violenza e il lirismo, la bottiglia, insomma ogni sregolatezza ha il suo genio, ed uno certo è stato Carmelo Bene. Quando si dice di qualcuno che sta sulla scena si tratta di lui: chi può dimenticare le due puntate di uno contro tutti tra l’artista salentino ed una platea di giornalisti, opinionisti e varia umanità, sul palco del teatro Parioli, in una versione speciale del Maurizio Costanzo Show? Era la metà degli anni novanta, Bene era ovviamente già conclamato e parimenti contestato. Brandiva una copia della sua opera omnia, edita in una collana che per la prima volta ospitava un autore vivente, o morente, come amava definirsi. Un classico in vita, come amava autopromuoversi. Eccezione nell’eccezionale: fumava. Non si poteva ma a lui era concesso, Costanzo non poteva arginare né i suoi vizi né le sue virtù. Parlò di tutto, di letteratura, di filosofia, di politica, di posterità, nel senso di avvento del futuro, dava definizioni, per esempio della pornografia, che non definiva sconcia ma oscena, o-scena, di cosa fuori scena, dunque non interessante per l’uomo di scena, in scena. Furono un successo d’ascolti quelle due serate. Una miniera di chicche per giovani laureandi che le utilizzarono per le proprie tesi. Un evento culturale nazionale. Sulla rete, se si digita il suo nome, compare un sito: carmelobene.it. E’ diviso in sezioni: vita, morte, miracoli. Questo per dire quanto la sua figura sia stata frutto di una vera e propria adorazione e non solo da parte dell’intelligenza del Paese, anche di gente che a teatro forse c’andava a vedere la rivista o l’avanspettacolo. Invece pagavamo i biglietti per uno che leggeva Leopardi come avrebbe fatto un Leopardi autentico solo un po’ allucinato, o faceva Pinocchio come “macchina attoriale” (sua la definizione, ovviamente), in tutte le sue parti, gatti volpi balene fatine. Quasi di più che animare un pezzo di legno, che fare il burattino nelle mani di una regia qualsiasi. La macchina attoriale di Bene era una concezione artistica autonoma, era sia la balena che mangiafuoco, era anche il pubblico, paradossalmente. La macchina attoriale era una evoluzione della pirandelliana “maschera viva” dell’attore, sempre più, col tempo, incentrata sul tema della voce: ne usava di registrate, di nasali, di accelerate, di amplificate. Una volta dalla torre degli Asinelli di Pisa, quella pericolante, nascosto in un piano alto, per ricordare la strage di Bologna, lesse Dante. Era il 1981, leggeva terzine, ma sembrava Woodstock, un evento pop, rock. Carmelo Bene era un rocker anche per le sue ombre private, la follia, il rapporto burrascoso col femminile. In eccesso, per questo ci avanza e non ci manca. Il suo eccesso era un regalo ai posteri, un atto di generosità del classico morente. Leggere Vita di Carmelo Bene, scritta grazie a Giancarlo Dotto, è un’esperienza estetica prima che biografica o letteraria. E come tale invecchia, ma non muore.
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