Il grande scontro destra vs. sinistra si è concluso col risultato di 1 a 2: Liguria al centrodestra, mentre il centrosinistra scommetteva sulla vittoria; Emilia Romagna al centrosinistra, risultato scontato; Umbria al centrosinistra, dove il centrodestra governava e pensava di resistere. Alla banalità di chiedersi che ricadute avrà tutto questo sul governo nazionale sembra si stia resistendo, perché non pare che in questo caso ci sia nulla capace di mettere in crisi l’esecutivo guidato da Giorgia Meloni.
Poiché anche in politica vale l’assioma della goccia che scava la roccia, qualche riflessione la si può fare e riguarda alcuni dati che si ricavano dai risultati. Scontato il rammarico per l’alto tasso di astensionismo: ormai è un dato quasi strutturale, la metà degli elettori diserta le urne. Le ragioni sono varie, ma senz’altro c’entra la convinzione diffusa che chiunque governi le sue possibilità di intervento, almeno per ciò che riguarda la gente comune, sono più o meno le stesse. Non è esattamente così, ma sarebbe miope non riconoscere che in questo modo di sentire c’è anche del vero. Per recuperare la partecipazione sarà necessario ricostruire le reti di coinvolgimento sociale, che sono nel migliore dei casi appassite, anzi per lo più si sono disseccate. Come farlo è tutto da vedere.
Sarebbe interessante notare che in tutti tre i casi i vincitori sono tre sindaci: Bucci in Liguria, sindaco di Genova; De Pascale in Emilia, sindaco di Ravenna; Proietti in Umbria, sindaca di Assisi. La gente al governo vuole un amministratore sperimentato a fare, non un politico esperto in proclami. Nei tre casi i partiti guida si sono arresi a questa realtà: quanto l’abbiano fatto volentieri è materia di discussione.
Sicuramente escono dalle tre prove coalizioni ridimensionate nella loro retorica. Il destra-centro vede confermata la leadership di FdI, che però deve far perno sulla attrattività della Meloni premier, perché di leader locali credibili non sembra averne. Esce con le ossa rotte la Lega di Salvini. Nelle precedenti regionali in Emilia Romagna aveva il 31,9%, in Umbria il 36,9, mentre adesso ha il 5,3 nella prima e l’8% nella seconda. Il protagonismo barricadier-mediatico del fu “Capitano” proprio non paga. Conferma crescita e tenuta FI che in Emilia Romagna passa dal 2,5 del 2020 al 5,6 di oggi e in Umbria dal 5,50 al 10.
Difficile dire come si reggerà la coalizione nelle prove elettorali del 2025: ci sono in ballo 6 regioni, fra cui il Veneto retto da Zaia, e comuni importanti a cominciare da Milano. Con un problema non da poco come è dopo la sentenza della Consulta la revisione della riforma Calderoli sull’autonomia regionale differenziata, possiamo attenderci più di qualche scintilla, anche se poi la paura di perdere il potere li terrà alla fine insieme.
Complessa la situazione anche nel centrosinistra. Qui il PD è sempre più un gigante circondato da cespuglietti: ha il 43% in Emilia Romagna e il 30 in Umbria, mentre sulla sua sinistra AVS ha il 5,3 nella prima e il 4 nella seconda, sul fianco (perché non si sa dove collocarlo nella geografia tradizionale) M5S ha rispettivamente il 3,5 e il 4,5. I cosiddetti centristi si sono sparpagliati ma non raggiungono risultati degni di nota.
Potrebbe essere interpretato come un successo per la Schlein, ma è una situazione ambigua. In quella che era la sua regione non è con uomini e donne portati in auge dal suo movimentismo che ha vinto. Ad affermarsi è stato lo zoccolo duro della tradizione riformista regionale, che pure ha mostrato la vitalità di poter esprimere un forte ricambio generazionale. De Pascale è un candidato di spessore, che se mantiene fede alle sue premesse e alla sua storia può diventare un punto di riferimento, rilanciando quel “modello emiliano” che è fatto di confronto e coinvolgimento con la società civile, di rapporto dialettico, ma realistico col governo nazionale, di sano pragmatismo nel rapporto con le opposizioni. Non proprio le caratteristiche del modello Schlein e della sua corte.
Anche la sonora marginalizzazione di M5S è un dato ambiguo. Da un lato conferma l’inconsistenza della sua classe politica (neppure a livello locale c’è qualche personalità che si fa notare), dall’altro però mantiene, a stare ai sondaggi nazionali, una certa capacità di aggregare un po’ di rabbia sociale. Ciò probabilmente spingerà Conte ad accentuare il carattere di movimento che si colloca fuori della dialettica normale delle alleanze, mentre al tempo stesso continuerà a cercare di occupare posti di potere, sia grazie all’alleanza traballante col PD, sia grazie a qualche trattativa sottobanco con la maggioranza di governo (vedremo come andrà con la RAI e con le nomine alla Corte Costituzionale).
L’estrema sinistra continuerà ad essere una spina nel fianco del PD, che non potrà neppure contenerla con il ricorso al mitico “centro” che non decolla proprio. Qui si porrà il problema non piccolo di costruire direttamente in casa di quel partito lo spazio adeguato per raccogliere il consenso del riformismo moderato: un’impresa che può spaccare la base e i gruppi dirigenti.
Eppure se il centrosinistra vuole davvero mettersi in grado di sfidare l’attuale maggioranza alle prossime elezioni il tema di ridefinire la sua attuale confusa fisionomia deve porselo: Schlein non è attrezzata per un tale compito, ma si fa fatica a vedere chi potrebbe farsene carico.
Quelle che abbiamo cercato di schizzare sono tutte evoluzioni di medio periodo. Certamente un ruolo fondamentale per tutti, a destra come a sinistra, lo rivestirà la capacità di elaborare serie proposte politiche abbandonando le vecchie, logore litanie ereditate dal passato. Poi ci sarà l’impatto con una situazione internazionale molto problematica, per non dire di peggio. Ma quella non dipende da noi.
(da mentepolitica.it)
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