di Paolo Pagliaro
Ogni guerra è anche una guerra di parole. Non per niente le dittature prestano la massima attenzione alla disciplina della lingua, proibendo i termini sgraditi e sorvegliando gli usi non autorizzati delle parole più sensibili. Succede anche con i regimi democratici, per esempio tacciando di antipatriottismo chiunque qualche anno fa si rifiutasse di chiamare guerra al terrore l’invasione americana dell’Afghanistan e dell’Iraq. La guerra di Gaza non fa eccezione. In questo caso è stato cambiato a scopi strategici il senso della parola antisemita, attenuando fino a farlo scomparire il distinguo con l’ antisionismo, che è cosa ben diversa.
Questa è la tesi di Valentina Pisanty, studiosa della Shoah, accusatrice del negazionismo, non sospettabile dunque di intelligenza col nemico. La semiologa dedica un saggio pubblicato da Bompiani all’uso improprio e strumentale della parola antisemita con cui viene bollato chiunque critichi Israele.
Pisanty ricostruisce pazientemente le tappe principali di quello che lei chiama il “sequestro di parola” realizzato dalle destre israeliane, al potere dal 1996. Sinonimo del Male Assoluto, il termine antisemita si presta a una varietà di usi funzionali alla politica di chi se ne sente custode e titolare.
Antisemitismo è puro pregiudizio razzista. Antisionismo è una posizione politica. Arruolare tra gli antisemiti milioni di giovani che in tutto il mondo hanno manifestato perché si fermasse il massacro di Gaza è stato l’ultimo dei danni che Netanyahu ha procurato all’ebraismo.