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direttore Paolo Pagliaro

ANTONIETTA DE LILLO:
IL MIO CINEMA RESISTENTE

ANTONIETTA DE LILLO: <BR> IL MIO CINEMA RESISTENTE

Da bambina - quando vide quello strano modo in cui una gallina chiudeva il suo occhio - non volle parlarne per paura di non essere creduta. Oggi – vittima di una ingiustizia, emblematica di una stortura nel sistema cinematografico nazionale - ha voluto parlare perché potesse essere creduta ancor meglio. Nel suo documentario “L’occhio della gallina”, Antonietta De Lillo ricostruisce la sua odissea giudiziaria durata 20 anni ed iniziata quando “Il resto di niente”, il suo film sulla eroina Eleonora Pimentel del 2004 che, pur avendo conquistato tre David di Donatello e cinque candidature ai Nastri d’Argento, uscì nelle sale in sole 20 copie. Fatto del quale la regista si lamentò venendo citata per diffamazione, aprendosi così in un lungo contenzioso legale con l’Istituto Luce che si concluderà solo 10 anni (con due sentenze a sfavore per l’Istituto ed una per la regista). Il Resto di niente avrebbe dovuto coronare il successo oltre un decennio di cinema autoriale, libero ed indipendente per Antonietta De Lillo. Ma non fu così e anzi le carte bollate continueranno ad arrivare. “Dopo Il resto di niente - racconta nella sua videointervista per il format Ciak azione della agenzia di stampa 9colonne - ho capito che intorno a me c’era un’aria di punizione. Ho capito che nessuno mi avrebbe più dato retta, né finanziamenti pubblici né i produttori privati. E sono convinta che il fatto che fossi donna abbia aggravato la situazione. Forse è questo che mi ha dato più fastidio. In occasione di questi contrasti ho capito che ci sono degli svantaggi ad essere donna. Prima di allora non l'avevo capito anche perché venivo da una famiglia che era un matriarcato. Ora questa cosa la sento molto e dico che le donne devono battersi per un'uguaglianza che le porti però ad occupare in modo ampio posti apicali, dove potere esprimersi la visione a 360 gradi ed innovativa del pensiero femminile, nell'organizzazione sociale, politica, industriale, culturale. Quindi, sentendo questa brutta aria intorno a me, 10 anni fa, ho aperto una mia casa di produzione, la Marechiarofilm”. Con un intento che suona come un manifesto: “Favorire l’incontro e lo scambio tra generazioni diverse, tra cinema e rete e andare contro la società dell’usa e getta, recuperando materiali filmici importanti per la nostra memoria” e spazi come Fuori dal pollaio dove incontrarci per raccontare le nostre storie, A dimostrazione che i traumatici passaggi imposto alla sua carriera sono stati quindi attraversati da De Lillo in modo decisamente originale e creativo. “Da brava napoletana” come tiene a precisare. “L'occhio della gallina è un esempio del mio modo di fare un cinema che si ‘impone’, nel senso che non sono io che scelgo ma vengo scelta dalle storie. Ed in questo caso ho dovuto mostrare come – grazie anche a pochi ma buoni amici – si possa resistere ad un potere che decide che devi uscire dal paradiso terrestre ed essere dimenticato; come non sia così facile, se si sta dalla parte giusta, essere cacciati fuori di casa. Perché il cinema lo considero casa mia, è un padre che mi ha fatto crescere che ora non può diventare un patrigno che umilia e mortifica, parte di un sistema che gioca a fare morire di abbandono. Ho resistito e non mi sono fermata e non mi sono fermata neanche con le istituzioni” spiega De Lillo che, ne “L’occhio della gallina”, racconta anche del secondo atto del suo braccio di ferro: Marechiarofilm nel 2009 ottiene che il suo progetto di film “Morta di soap” dal libro di Adele Pandolfi sia finanziabile, senonché i fondi ministeriali vanno esauriti. Ovviamente l’anno dopo Marechiarofilm ci riprova ma, “inspiegabilmente”, il punteggio viene abbassato e partono i ricorsi. L’iter legale si concluderà a favore di Marechiarofilm con l’ottenimento del finanziamento per il film (500mila euro) ma solo ne 2023, a 14 anni dalla prima domanda di partecipazione.

“Nel settore cinematografico oggi mi dicono: sì qualcosa sapevo ma ora so tutto. Eppure non è che si stupiscano più di tanto. Questa storia la conoscono già perché è successa anche ad altri… E’ proprio vero che nessuno è eroe in casa sua. E questo mi dispiace perché io ho voluto parlare di questo a nome di tutti gli autori che sono stati messi da parte (e ad uno di loro, il fotografo napoletano Luca Musella, protagonista della Milano da bere finito poi sul lastrico De Lillo nel 2014 ha dedicato il documentario Let’s Go con la collaborazione di Giovanni Piperno, ndr). Mi auguro ora che ci sia più solidarietà che finora è mancata. Ciò dimostra quanto questa mia vicenda abbia un valore politico che non andava nascosta. Perché quello che è successo a me accade anche in altri settori, tra i medici, tra gli insegnanti. E credo così di aver dimostrato come si possa reagire all’arroganza del potere, come non bisogna sempre abbassare la testa. E come sia gratificante ed anche salutare alzare il telefono e dire: così non si fa”.

Il nome di Antonietta De Lillo – che nel 2016 ha ricevuto il Nastro d’argento speciale per il suo percorso nel cinema del reale  - è pienamente affiancato a quello dei cineasti che, a fine anni ’80, hanno visto affermarsi il nuovo cinema napoletano, come Stefano Incerti, Antonio Capuano, Pappi Corsicato, Mario Martone, che non a caso diressero nel 1997 il film collettivo, “I vesuviani”, vero lavoro programmatico di questo rinascimento vesuviano, onirico eppure legato a spaccati reali (anche e soprattutto nei set), dolce e feroce, eccessivo e raffinato, scanzonato e filosofico. Nel 1985 (a soli 25 anni, neolaureata al Dams di Bologna) dirige il suo primo lungometraggio, Una casa in bilico (insieme al compagno Giorgio Magliulo), vincitore del Nastro d’ Argento quale migliore opera prima; nel 1990 è al suo secondo film, Matilda.  Una ondata creativa difficilmente catalogabile – come lo è l’episodio che Antonietta De Lillo dedica ad un transessuale, Maruzzella – ma certo rivoluzionaria tanto da spostare l’asse da Cinecittà all’ombra del Vesuvio, con il sobbollire di quella fucina creativa che in quegli anni fu la compagnia Teatri Uniti fondata da Toni Servillo e da cui uscirà peraltro Paolo Sorrentino. Anche De Lillo ha una società di produzione, prima la AngioFilm e poi la Megaris che, dal 1990 al 2002, le permette di sperimentare il suo cinema colto ed innovatore (“Non è giusto” del 2001 è tra i primi film realizzati con camera digitale a mano). E sempre in maniera del tutto indipendente, proponendosi come laboratorio anche per altre produzioni. Un decennio che vede la regista affermarsi con documentari (Angelo Novi fotografo di scena, La notte americana del dr. Lucio Fulci, Ogni sedia ha il suo rumore, Promessi Sposi, ’O cinema) ed un altro film, nel 1995, Racconti di Vittoria (Premio Fedic e del Sindacato Critici Cinematografici alla Mostra Internazionale d’ Arte Cinematografica di Venezia), con Enzo De Caro ed Enzo Moscato, conturbante opera sul rapporto con la morte. Tema che la regista ha intenzione di tornare ad esplorare: “Mi piacerebbe molto fare una serie che si chiama the last show in cui ogni puntata sia un funerale…”. Tra i prossimi progetti della regista napoletana anche il terzo film partecipato, “marchio di fabbrica” per Marechiarofilm che per la prima volta ha sperimentato questo tipo di approccio filmico nel panorama italiano, che riunisce immagini amatoriali e video realizzati da professionisti, sostenuto dal crowdsourcing e con l'aiuto di filmmaker, studenti di cinema ma anche persone comuni. Il primo nel 2009 con Il pranzo di Natale: “una fotografia di come eravamo, della crisi economica di quegli anni”. Poi nel 2015 “Oggi insieme, domani anche”, “un ‘Comizi d’amore’ 30 anni dopo, in cui invece che una riflessione sui rapporti amorosi al tempo della legge sul divorzio, c’era la riflessione su un altro momento storico, quello delle unioni civili. Il prossimo tratterà del nostro rapporto con gli animali che ci invadono, che mangiamo, che amiamo ma anche con l'animale che è dentro di noi, a volte feroce e a volte invece è troppo assopito ma che forse ci potrebbe anche salvare la vita….”.  Come la gallina che zompetta ironicamente nel documentario-denuncia della regista (e “Fuori dal pollaio” è il significativo titolo dato ai progetti dei film partecipati). Come la kafkiana scimmia “napoletanizzata” del suo film “Il signor Rotpeter” del 2017.

“Come nasce il film partecipato? Io inizio come fotografa ed operatrice ed il cinema mi piace quindi conoscerlo anche in tutta la sua tecnicità. Oggi il digitale, in cui non esiste più un negativo originale ma esistono tanti file nativi, permette di realizzare tanti racconti che poi vanno a comporre la narrazione. In sostanza nel film collettivo è il contenuto che suggerisce la forma e viceversa. E’ una specie di puzzle che si compone anche della casualità delle storie. In questo senso il mio cinema è napoletano appunto, come me. E’ un atto di fede, con dei salti, che si affida alla casualità e non accetta il fatto che oggi debba essere tutto liofilizzato, omologato, etichettato, che il cinema debba essere come realizzato come le serie tv, spezzettando la creatività di ogni singolo operatore. E’ una aberrazione pensare che sia solo un’industria che produce prototipi di una filiera. E’ questo considerare il cinema come una industria è il peccato originale della nuova legge – che modifica peraltro anche la non giusta legge Franceschini – che fa sopravvivere solo il più grande, premiare la piccola élite che negli anni ha preso un sacco di soldi e i pochissimi produttori che il ministero ha sempre ascoltato. E invece il cinema è per sua natura incerto. Un film, come sarà realizzato alla fine nessuno lo sa, neanche il regista, deve fare dei passi di qualità per arrivare infine a raccontare una bella storia. Per questo dico sempre che noi dobbiamo avere paura dell'intelligenza artificiale dentro di noi non quella fuori di noi. Gli spettatori mi sembra siano come nella favola del re nudo in cui tutti si adeguano ad un gusto imposto. Specie oggi che hanno una scelta di titoli mai così alta grazie alle piattaforme, che sono fondamentali per la diffusione delle nostre opere. In passato, ad esempio, un mio documentario come quello di Alda Merini (nel 2013 De Lillo ha realizzato ‘La pazza della porta accanto’ dedicato alla grande poetessa, ndr) potevo sperare di farmelo trasmettere solo da ‘Fuori Orario’. Ma alla fine lo spettatore non è fesso e ci abbandona, come vediamo accadere nelle sale. Come con le serie tv dopo la scorpacciata che ci siamo fatti tutti durante il Covid. Dobbiamo tornare a ricordarci che l'Italia ha due grandi cose, il cibo e il cinema, tutte e due con la lettera ‘c’. Ma bisogna tornare a fare prodotti originali, farli con la mano dell’uomo invece che con quella di Dio…”. Il rimando non è tanto al film di Sorrentino quanto all’approccio del settore: “Napoli, a parte Sorrentino, è sempre stato un teatro, una città di artisti di ogni genere, forte nel bene e nel male ma non una città neutra mentre a Roma si vive uno stato di decadenza, si è persa curiosità, energia e rispetto nei confronti del cinema. Non lo si considera più qualcosa che ci fa bene, che crea cultura. Si pensa che fare un film o un'altra cosa sia uguale, basta che faccia lavorare…”. Marechiarofilm, appunto con il film partecipato, promuove anche una originale idea “ecosostenibile” di cinema:  circolare e a sostegno delle giovani generazioni (tra cui anche le ‘marechiarocase’, mini-appartamenti ad uso foresteria per chi lavora nel settore dello spettacolo): “Desidero aiutare i giovani, come avrei voluto io nei miei inizi, quando mi sarebbe piaciuto incontrare un autore che mi riversasse un po’ della sua esperienza. E nel film partecipato, come anche nei nostri tutoraggi e workshop, cerchiamo un incontro tra generazioni diverse in maniera paritaria. Non sopporto gli adulti che si lamentano dei giovani e ne parlano con superiorità. Ma anche i giovani si devono relazionare con onestà con chi può aiutarli a crescere. Anche il cinema è espressione di una società che fatica ad aiutarsi. E’ un settore in guerra come lo è mezza Italia. Ma la lotta in cui siamo immersi non giova a nessuno e io, anche se sono stata costretta a lottare da vent'anni, non ho mai smesso di cercare il dialogo, di chiedere una soluzione pacifica.  E questo, se ci pensiamo bene, lo si dovrebbe fare ad ogni livello, nelle nostre piccole vite come nelle grandi guerre. Mi dispiace però non avere ancora trovato nessuno che voglia mediare veramente, in ogni settore. Penso che oggi la cosa che più vada rimessa in piedi è il senso della collettività. Non a caso il bel film di Andrea Segre su Berlinguer ha avuto successo perché ci ricorda come eravamo, come popolavamo le piazze, come partecipavamo e protestavamo. E sapevamo anche ascoltare chi dice ‘non è giusto’, come dicono i bambini quando non capiscono il mondo degli adulti, a cui ho dedicato il titolo di un mio film”. (6 feb - red)

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