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direttore Paolo Pagliaro

ITALIANA LA PIU’ GRANDE
RETE SU STUDIO CERVELLO

ITALIANA LA PIU’ GRANDE <BR> RETE SU STUDIO CERVELLO

Svelare il meccanismo alla base delle difficoltà nei pazienti con Alzheimer e Parkinson a riconoscere le espressioni facciali, fondamentali per comunicare con gli altri, e individuare un possibile trattamento. Utilizzare cervelli “in miniatura” creati da cellule staminali pluripotenti, riprogrammate in neuroni, per testare nuove terapie contro le demenze. Prevenire i disturbi del neurosviluppo nei neonati prematuri, grazie alla potenziale azione antiossidante di soia e olio di oliva. Si aggiungono così nuovi obiettivi e nuove maglie alla rete del progetto MNESYS, il più ampio programma di ricerca sul cervello mai realizzato in Italia e ora diventato il più grande e all’avanguardia in Europa. Oltre 60 centri in più, coinvolti negli ultimi sei mesi, per un totale di 90, tra i migliori atenei pubblici e privati, istituti di ricerca, IRCCS e imprese. 600 pubblicazioni e circa 300 progetti attivi a oggi, di cui oltre 90 avviati dal giugno scorso, finanziati con 23 milioni di euro, grazie ad appositi “bandi a cascata”. Altri 200 giovani ricercatori, assunti in poco più di un anno, per un totale di circa 800 scienziati italiani, a caccia di nuovi test e terapie per la diagnosi precoce e la cura delle malattie del sistema nervoso, con trattamenti modellati sui pazienti. Questo lo stato attuale e i numeri di MNESYS, presentati in occasione del III Annual Meeting, in corso a Genova, al Palazzo della Meridiana.

Tra le nuove frontiere di ricerca del progetto MNESYS lo studio di nuove strategie per prevenire lo sviluppo di danni cerebrali nei neonati prematuri. Ad occuparsene, uno studio dell’IRCCS Istituto Giannina Gaslini di Genova, con l’obiettivo di valutare l’efficacia di nuovi approcci nutrizionali precoci nei bambini prematuri, cioè nati prima della 32esima settimana di gestazione. “I neonati molto pretermine e con peso alla nascita estremamente basso sono a rischio di sviluppare problemi del neurosviluppo – afferma Luca Ramenghi, direttore U.O. Patologia Neonatale dell’Istituto G. Gaslini e professore straordinario di Pediatria dell’Università di Genova -. Il nostro lavoro si prefigge di svelare gli effetti di diete con differenti livelli di lipidi, ricchi di antiossidanti, in fase neonatale, sulla maturazione cerebrale di questi neonati, messa a rischio dallo stress ossidativo, uno dei grandi problemi della prematurità. Ciò avverrà inserendo soia, olio d'oliva non evo o grasso di pesce nell’alimentazione dei bambini pretermine e valutandone l’efficacia con test psicoattitudinali – aggiunge -. I lipidi sono fondamentali per la sostanza bianca, cioè la mielina, il rivestimento protettivo che si sviluppa attorno alle fibre nervose, vitale per il corretto funzionamento del sistema nervoso. Quando i bambini sono ancora nel grembo materno ricevono il corretto apporto lipidico direttamente dalla mamma attraverso il cordone ombelicale, ma quando sono prematuri necessitano che questi vengano forniti dall’esterno, per somministrazione endovenosa tramite quella che prende il nome di "nutrizione parenterale totale", che agisce come una "placenta artificiale" – spiega Ramenghi -. Non sappiamo ancora quale tra queste formule lipidiche sia la più efficace, il nostro obiettivo è quindi quello di capire attraverso studi con risonanza magnetica quale sia la scelta più adeguata per garantire lo sviluppo neurologico migliore”.

 

 

Tra i nuovi progetti avviati con MNESYS, uno studio dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano, mira a svelare il ruolo dell’infiammazione nello sviluppo dell’Alzheimer, attraverso la creazione di cervelli “in miniatura” su cui testare trattamenti innovativi. “L’infiammazione nel cervello è un fenomeno ancora poco chiaro – riferisce Gianluigi Forloni, capo del Dipartimento di Neuroscienze e del Laboratorio di Biologia delle Malattie Neurodegenerative del Mario Negri -. Nel processo sono coinvolte le cellule gliali, che hanno la funzione di proteggere i neuroni da danni che ne compromettono la funzionalità, ma che in condizioni patologiche possono produrre anche effetti negativi. Studiare quindi l’attivazione e lo “spegnimento” di queste cellule è fondamentale per identificare nuovi strumenti terapeutici per contrastare gli effetti dell’Alzheimer – prosegue -. Ad oggi non esistono però modelli sperimentali in grado di “imitare” adeguatamente la patologia. Per riprodurla efficacemente in laboratorio, il nostro studio si propone di utilizzare cellule da pazienti con demenza, che come nel film di Benjamin Button verranno fatte regredire allo stadio di cellule staminali, per essere riprogrammate in neuroni. Ciò consentirà di ricreare piccoli cervelli in miniatura (organoidi) che potranno essere usati come laboratori virtuali per testare l’efficacia di nuove terapie”.

 

Rimanendo nel campo delle malattie neurodegenerative, un’altra prospettiva di ricerca è aperta da uno studio, guidato dall’Università di Sassari sui meccanismi alla base del riconoscimento e della produzione delle espressioni facciali, abilità cruciale per la comunicazione con gli altri, che viene a mancare nei pazienti con malattia di Parkinson e di Alzheimer. “Gli individui che presentano difficoltà nell’esprimere le proprie emozioni col volto e nel riconoscere le espressioni facciali altrui hanno limitazioni nel comportamento sociale, e ciò crea disagio al paziente, peggiorandone le capacità di interazione con gli altri e, di conseguenza, la qualità di vita. Dare una spiegazione a tale disabilità potrebbe essere dunque importante per stabilire un possibile trattamento – spiega Franca Deriu, ordinaria di Fisiologia all’Università di Sassari -. Un’ipotesi su cui si sta lavorando è rappresentata dalla compromissione nella capacità di riprodurre le emozioni osservate – prosegue -. Durante la visualizzazione di un'espressione facciale, nel nostro cervello si attiva a sua volta l’imitazione dell'emozione corrispondente. Se ciò viene meno, a causa di sintomi motori che impediscono o ritardano tale processo, potrebbero esserci difficoltà nel riconoscimento dell’espressione emotiva altrui – chiarisce -. Un’altra spiegazione del sintomo potrebbe invece trovarsi nella presenza di disturbi percettivi nelle vie corticali temporo-frontali, deputate al riconoscimento del volto umano. L’osservazione di un’espressione facciale induce l’attivazione delle stesse regioni del cervello deputate a controllarne l’esecuzione, e perciò, per così dire, l’automatica simulazione della stessa azione nella mente dell’osservatore – puntualizza -. Lo scopo del nostro lavoro sarà quindi quello di confrontare il modo in cui le espressioni vengono percepite da individui in salute rispetto a chi è affetto da malattia di Parkinson e di Alzheimer, così da determinarne il meccanismo scatenante e individuare possibili trattamenti”. (28 feb - red)

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