di Paolo Pagliaro
“Il lavoro, del cui senso ora si dubita, ci appare improvvisamente in tutta la sua povertà e pericolosità: ripetitivo, spesso nocivo e sottoposto a ritmi intollerabili, pagato male e, in definitiva, causa di alienazione. Proprio nell’accezione originaria marxiana del termine”. Questo scriveva il sociologo Luigi Manconi commentando il fenomeno della Great Resignation, le dimissioni in massa dal lavoro dopo lo choc della pandemia. Un fenomeno che ha riguardato e riguarda milioni di persone in tutto il mondo, Italia compresa.
In questi giorni Einaudi pubblica un libro - “Le grandi dimissioni” - della sociologa Francesca Coin che spiega perché molti lavoratori esausti, esasperati e impoveriti si sono licenziati dai settori della ristorazione, della sanità, della vendita al dettaglio, della cultura. Qualche spiegazione viene anche da Collettiva, il giornale digitale della Cgil, che oggi anticipa i risultati di un’inchiesta sulle condizioni e le aspettative di 31 mila addetti di tutti i settori pubblici e privati. Tra le molte informazioni significative ci sono quelle riguardanti il salario lordo medio reale che tra il 2000 e il 2021 in Italia è aumentato dello 0,5%. Nello stesso periodo le retribuzioni hanno fatto registrare aumenti del 17,1% in Germania e del 21,5% in Francia. Nel 2021 il salario medio italiano era di 29,7 mila euro lordi annui, contro i 43,7 mila di quello tedesco e i 40,1 mila di quello francese. Di fronte a questi dati risultano disonorevoli i pudori e i dubbi con cui viene accolta la sacrosanta richiesta di un salario minimo.