Quale modo per tentare di ricucire gli strappi tra femministe di ieri e di oggi, tra chi segue la teoria del gender e chi ne diffida? “Quel punto di equilibrio si chiama discernimento” risponde, in una intervista a Repubblica, la filosofa Annarosa Buttarelli, allieva e assistente di Luisa Muraro, curatrice delle opere e dell’archivio di Carla Lonzi, ospite al Festivaletteratura di Mantova. “Sta nella capacità di recuperare un pensiero critico che sappia contestualizzare, mettere le cose in una prospettiva storica. Non si può ragionare a prescindere dai dati di realtà. Le posizioni differenti vanno sempre valutate dentro le situazioni per non cadere nei pre-giudizi che sono appunto giudizi formulati a priori”. E dello Schwa e del linguaggio inclusivo dice: “È un’astrazione, e perdipiù non è pronunciabile. Non si può imporre una regola calata dall’alto al linguaggio che è qualcosa di vivo. La lingua materna, quella del cuore e delle lacrime, ci riconnette con ciò che sentiamo. Tutto il resto è una neolingua che rischia di diventare un codice astratto, studiato a tavolino. E poi noi donne abbiamo lottato tanto per conquistarci le declinazioni femminili, nei mestieri ad esempio, e ora ci viene proposto il neutro”. Inoltre sottolinea: “La parola inclusività non mi convince del tutto. Mi sembra sia una forma di annessione. Mi viene in mente l’ambra che cattura dentro di sé gli insetti. Insomma, mi pare una forma di egemonia. La vera inclusività democratica per le donne è iniziata nel 1946 con il voto. Mi piace il verbo accogliere”, “si è creata una frattura nel femminismo, vero. Faccio notare che l’ondata queer ha radici nella cultura americana, lacerata da una schizofrenia tra il puritanesimo e l’idolatria delle libertà individuali. Ho l’impressione che si stia cadendo in un paradosso, che il superamento di quello che viene detto il binarismo possa portare a una ricaduta in un’altra forma di identitarismo. Non è un caso che si parli di ‘identità di genere’. Gli stereotipi vanno smontati, sempre. È questo in fondo il significato ultimo del femminismo della differenza. All’università sono stata una volta processata perché avevo detto ‘noi donne’. Processata perché uno studente con barba e sottane si era sentito escluso, anzi esclusa. Poi abbiamo trovato un punto di conciliazione: avrebbe potuto essere considerato donna a patto di assumersi sopra le spalle la storia di noi donne: i roghi, gli abusi subiti durante le guerre, le lotte...”. (6 set -red)
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