Agenzia Giornalistica
direttore Paolo Pagliaro

CINQUE: DOCUMENTO
UN'UTOPIA POSSIBILE

CINQUE: DOCUMENTO <BR> UN'UTOPIA POSSIBILE

“Per il cinema indipendente in Italia è un momento estremamente difficile, si è costretti a lavorare nell'incertezza. Non si riesce a fare una programmazione neanche sull'anno prossimo, un periodo brevissimo per una casa di produzione. Noi per fortuna siamo una realtà che vive da sempre tra l'estero e l'Italia, in particolare con la Germania e quindi soffriamo di meno di tanti nostri colleghi. E’ un periodo di resistenza. Anche culturale direi… Ho fondato Lasy film nel 2011 per necessità, capendo che l'unico modo per essere liberi è l'autoproduzione e ho sempre mantenuto un piede in Italia ed uno all’estero. Ma ora stiamo pensando di trasferirci del tutto all’estero”. Michele Cinque, romano, 40 anni, autore di documentari che inanellano costanti premi all’estero, più presenti negli Istituti italiani di cultura nel mondo che nel nostro Paese, è uno degli eclatanti esempi di un talento che l’Italia non sostiene come merita. Tra il 2015 ed il 2018 ha portato a Roma il suo primo festival di light interaction design (prima con ROmap e poi con Solid Light Festival) unendo i più importanti artisti mondiali di questa nuova forma di arte 3D, a partire da Laszló Bordos che ha creato per il Colosseo quadrato il più imponente mapping stereoscopico architettonico mai realizzato in Italia. Nel 2016 è invitato dall’ente benefico inglese People Palace Project a realizzare una mostra interattiva sulla favela di Marè, la più grande baraccopoli di Rio de Janeiro in cui vivono 140mila persone. L’occasione erano i 500 anni del libro “Utopia” in cui Tommaso Moro coniò questo termine con cui oggi si evocano quelle idee che possano condurre a società ideali. Nello stesso anno si imbarca al largo delle coste libiche per girare il documentario Iuventa, che arriva ad essere proiettato al Parlamento europeo, diventato un manifesto politico contro la criminalizzazione dei soccorsi in mare e che presto diventerà un film prodotto da Netflix Germania. Anche questa una utopia. Quella di un gruppo di ragazzi tedeschi, guidati da un 19enne, “che credono ancora nella loro capacità di cambiare le cose e di avere un impatto sulla realtà. E così è stato. Dopo anni di mistificazioni, indagini e processi che hanno cercato di criminalizzare chi soccorre i migranti in mare, sono stati tutti assolti. Una storia che, dopo due anni di lavoro, verrà raccontata dal film di Netflix, cosa di cui sono molto fiero” racconta il regista nella videointervista per il format Ciak, Azione! della agenzia di stampa 9colonne. “Penso che questo - afferma - sia il momento dei cambiamenti necessari, soprattutto verso i temi ambientali e che ciò passi da rivoluzioni che però non sono più di piazza ma intime, personali… Sono questi cambiamenti che permettono di creare le condizioni perché la nostra società possa ripartire in modo nuovo. Tutti temi che, se documentati, spero possano avere un effetto domino in chi li guarda. Ricordandoci delle radici solide che abbiamo, della bellezza del nostro paese, delle sue risorse umane e creative. Sono corrispondente estero di Rai Italia dal 2013 ed è un lavoro a cui tengo molto perché mi permette di vivere un'Italia che non si vede ma molto bella e di grande successo. Un’altra Italia fuori dall'Italia, stiamo parlando di 60 milioni di italiani… Ed il guardare il nostro Paese dal di fuori mi permette di continuare ad amarlo perché quando ci stai dentro ti senti un po’ perso, poco valorizzato. Basta guardare i numeri assolutamente preoccupanti dell’emigrazione, di quanti laureati se ne stanno andando mentre c’è chi ci fa credere che l’immigrazione sia un problema. In questo senso il mio narrare diventa un atto politico che quindi può spaventare in un periodo in cui la cultura è considerata pericolosa. Tuttavia non penso di fare film di denuncia ma piuttosto dei film importanti per me, che nascono da una mia urgenza. E’ una mia necessità esplorare il mondo. Ecco perché dico che non sono io che trovo i temi dei miei film ma che ne vengo trovato…”. 

E’ stato così per suo ultimo lavoro, “Storie che accadono sulla terra”, vincitore del premio per il miglior documentario al Festival dei Popoli, da poco approdato con successo all’ International Documentary Film Festival Amsterdam (Idfa) di Amsterdam, uno dei festival di documentari più importanti del mondo e pronto a circuitare nei festival mondiali, portando così oltre i confini nazionali una storia di umana resistenza da quel far west italiano, selvaggio e inaspettato, che è la Tolfa laziale, a solo un’ora di auto da Roma: “Un luogo visivamente straordinario, un far west che non ha niente da invidiare ai grandi parchi naturali americani, decine di migliaia di ettari di demanio pubblico in cui vivono ancora cavalli selvaggi, branchi di lupi, nidificano uccelli che migrano dall'Africa, con suoni veramente incredibili… Sono laureato in filosofia – racconta il regista - e da sempre sono interessato all’etica ambientale. Da diversi anni volevo narrare una storia di chi vive all’interno della natura e non di chi ne parla da fuori. Come in quei film, pur molto importanti, che denunciano l’apocalissi climatica ma infine ci lasciano preda dell’ecoansia. Ho incontrato tre anni fa Giulia e Francesco - una coppia di allevatori e genitori di Brianna di 6 anni e Brando di 13 - mentre stavano iniziando la loro rivoluzione etica. Contrari agli allevamenti intensivi (si calcola che le filiere zootecniche siano responsabili di ben il 15% delle emissioni globali di origine antropica), quando si sono accorti che i loro terreni erano in fase di desertificazione, hanno deciso di seguire i principi della permacultura e quindi fare in modo che i bovini avessero un impatto positivo sul suolo, rigenerando la fertilità naturale dell’humus. Ciò che avviene permettendo alle mandrie di seguire i loro ritmi di migrazione e quindi attuare la rotazione dei pascoli. Allevano 300 mucche su 1000 ettari e quindi sono tra i primi in Italia ad applicare le teorie del pascolo rigenerativo su un appezzamento così vasto. Ho documentato tutto questo in un modo osservativo, in cui cerco di farmi dimenticare dai protagonisti. E questo è stato possibile girando con la nostra troupe per due anni quasi 500 ore di materiale ed entrando così nell’intimità di questa famiglia. La camera è potuta diventare come invisibile, compiendo un viaggio fatto di immagini, suoni ed emozioni che ora porto al pubblico in un dialogo che mi fa sentire molto privilegiato, perché costringo a vedere 83 minuti di film in un mondo in cui sui social nessuno arriva alla fine di un video di neanche due minuti, a seguire il processo di trasformazione che Giulia e Francesco hanno intrapreso convinti, anche come genitori, della necessità di lasciare alle generazioni future un mondo più sostenibile, in cui la priorità non sia il profitto ma la salute degli ecosistemi”. Una impresa che “Cose che accadono sulla terra” documenta alternando la bellezza degli ondulati e luminosi pascoli al cupo rapporto della relazione umana con la natura: dalla minaccia dei lupi per le mandrie allo spettro della siccità, paure che nel corso della narrazione si elevano però ad un richiamo di responsabilità collettiva al rispetto degli ecosistemi. Come anche con la stessa società: quella delle banche, della burocrazia, degli allevamenti intensivi, della antropizzazione rappresentata dalle grandi navi da crociera e dalle ciminiere petrolifere che svettano all’orizzonte, nel mare di Civitavecchia. E proprio da questo contrasto emerge con forza l’utopia del piccolo mondo antico di questi cowboy moderni che il documentario proietta in una dimensione fiabesca, aperto e chiuso dal candore della voce della piccola Brianna, accompagnato dalle ancestrali vibrazioni dei cordofori, dalla viola al birimbao, nelle evocative musiche create da Luigi Cinque (il compositore padre del regista, curatore di Doctorclip, primo festival italiano di videopoesia), Giovanna Famulari, Stefano Saletti e Peppe Caporello. "La musica mi ha sempre accompagnato. Ho iniziato filmando i concerti sui palchi, in particolare di musica jazz, molto improvvisativi e questo è entrato nel mio dna di cineasta del reale nel senso che quando giro una scena sto sempre attento a cosa succede al di fuori. E i miei primi lavori sono stati dei film musicali” spiega il regista. Del 2007 è il documentario “Lavoro Liquido” sul concerto-evento tenutosi a Bologna per il Multimedia Labor Festival. A seguire i lavori su Louis Armstrong, su Bob Marley e poi, nel 2015, l’acclamato “Sicily Jazz” dedicato a Nick La Rocca, il figlio di emigranti trapanesi a New Orleans autore nel 1916 del primo disco della storia del jazz (e della stessa parola jazz che sostituisce l’iniziale jass) e che documenta l'influenza basilare che ebbero gli emigranti siciliani, con le loro mazurche e trombette da banda, sulla nascita di questo genere musicale, in cui si innestò l’influsso afroamericano, fiorendo quindi dal desiderio di rivalsa di due comunità, gli emigranti bianchi ed i neri d’America, entrambe discriminate. “In quel tempo la musica era l'unica cosa che viaggiava attraverso la segregazione. Ciò che mi ricorda l’attualità dei migranti. Un mondo che ho potuto approfondire nel cortometraggio, anch’esso musicale, Jululu, che ho girato in uno dei ghetti dei braccianti immigrati in Puglia. Un viaggio africano in Italia… “. Michele Cinque riesce a produrlo nello stesso anno in cui gira Iuventa e nel 2017 è vincitore della miglior regia alla 74ma Mostra del Cinema di Venezia nella sezione Migrarti e selezionato in oltre trenta festival internazionali.  Come corrispondente Rai, Michele Cinque è un globetrotter della telecamera. Solo tra il 2013 e il 2017 ha prodotto oltre cento filmati dal mondo per il programma Community, dal Sud America all’Africa, dagli Stati Uniti all’Asia (arrivando anche a tenere una masterclass all’istituto di cinematografia di Calcutta). Ed in questo viaggiare il passo di Michele Cinque si è sempre spinto in mondi di frontiera, dove poter narrare la mutevolezza dell’essere. Come quando, nel 2009, ha dedicato un documentario “Top Runner, il tassista volante” a Giorgio Calcaterra, il campione mondiale delle ultramaratone, un semplice tassista romano che nell’ambiente chiamano “re Giorgio” ma che in Italia pochi conoscono. Nel 2020 ha diretto un episodio dei 12 raccolti nel film tedesco “The World Beyond Silence” sulla pandemia, racconti intimi sul potere dell'umano oltre il silenzio e lo stesso anno dirige il film sperimentale “Quand on sera seuls”, in collaborazione con la compagnia francese La Fabrique Autonome des Acteurs, su un mondo distopico con un gruppo di sopravvissuti che fa i conti con il vuoto esistenziale lasciato dalla scomparsa degli animali e con la trasformazione dei propri istinti. “Mi sembra che il tempo sia ormai una delle cose più preziose che abbiamo – spiega -. Nessuno dedica abbastanza tempo né alla produzione né alla fruizione perché siamo sempre troppo impegnati. Ed invece il documentario può riportarti dentro un tempo umano. Eppure oggi -  pure se un documentario come Dahomey di Mati Diop ha vinto l’ultimo Orso d'oro a Berlino e questo genere viene celebrato in grandi festival come l’Idfa, Visions du Réel e Hot Docs - in Italia viene ancora considerato di serie B ed è molto difficile produrre documentari creativi. Da noi viene considerato qualcosa che parla di celebrities o di situazioni ‘instagrammabili’ ma in realtà il documentario dovrebbe essere qualcosa che porta il cinema ai suoi confini e quindi possa anche provocare delle forme creative diverse. C'è davvero un abisso da come viene visto un prodotto del genere in Italia e all'estero…”. (24 dic - red)

 

 

 

 

 

 

 

(© 9Colonne - citare la fonte)